bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

30 dicembre, 2016

2017 con laVerdi – 1


Siamo ancora, per poco, nel 2016 ma laVerdi guarda al futuro e dà inizio alla stagione 2017 rifacendosi anche il trucco con un nuovo portale (vagamente rassomigliante a quello della Scala, e che tanto per gradire... rende inservibili quasi tutti i link al vecchio!) e con l’ormai tradizionale Nona beethoveniana di fine-inizio anno. Lo stile del nuovo Direttore Esecutivo, Ruben Jais, si distingue subito: prima del concerto viene proiettato sul maxi-schermo un video promotional, che mostra i successi passati dell’Orchestra e invita il pubblico a decretarne i futuri. Completa la festa l’ingresso sul palco, per ultime, delle quote-rosa dell’Orchestra, per l’occasione up-gradate a quote-vermiglio!

É il redivivo Claus Peter Flor, che dopo la parentesi malese (piuttosto... ehm, tribolata) sta tornando sempre più spesso qui sui Navigli dove era stato di casa fino al 2008 e che già nel 2000 aveva diretto questa sinfonia, a proporcela come prima stazione di una serie di quattro che nella stagione lo vedranno cimentarsi con altre famose none: Bruckner, Shostakovich, Mahler!

La sua è una lettura veemente, le dinamiche sono al massimo (neanche ci fosse in sala il sordo Beethoven cui far arrivare i suoni!) ma insomma così nessuno si può certo permettere distrazioni. Unico taglio – di prammatica – il secondo da-capo dello Scherzo.

L’Orchestra – disposta alla tedesca, con i secondi violini al proscenio - suona senza sbavature e per la verità si distingue anche nell’Adagio, unica oasi raccolta e religiosa in questo turbinare sonoro.

Nel Finale a quella dell’Orchestra si aggiunge l’ottima prestazione del Coro di Erina Gambarini, che va elogiato anche per la cura della pronuncia crucca (!) Note decisamente meno liete, ahinoi, per i quattro solisti (che Flor ha piazzato davanti al coro e dietro gli strumenti). Il basso polacco Daniel Borowski ha mostrato un vocione cavernoso ed ingolato da far paura, oltretutto peccando assai nell’intonazione e persino nel solfeggio: insomma, un mezzo disastro. Un filino meglio (ma è fin troppo facile...) Carlo Allemano, che ha una discreta voce di tenore lirico, forse non perfettamente tagliata per questa parte. Senza infamia e senza lode le due voci femminili: meglio la Christina Daletska, voce abbastanza corposa e svettante anche negli insiemi; così-così la Marie-Pierre Roy, che ha l’attenuante di aver dovuto sostituire (probabilmente in fretta e furia) la prevista Karen Vourc'h.

Ci sono altre tre repliche e le cose non potranno che andar meglio...

19 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 2


Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese. Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello spettacolo, guidato in scena da Rosetta Cucchi e in buca da Michele Mariotti.

Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese, anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua: non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta. Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.

I suoi fan non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che, essendo l’unica aria dell’opera degna di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea, dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste di bis: chissà se per l’emozione provocatale dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco edificante!

Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte leggera e scanzonata.

Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da dimenticare il borgomastro di Luca Gallo, vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo Malagola Barbieri, Tommaso Caramia e Aloisa Aisemberg nelle parti di contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.  

Michele Mariotti non si scopre oggi: sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai esagerati e invadenti.

Complessivamente mi è parsa una prestazione più che accettabile.
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Rosetta Cucchi (coadiuvata da Tiziano Santi per le non mirabili scene, Claudia Pernigotti per i costumi anonimi e Daniele Naldi per le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).

Questa idea dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi; così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice: è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico, le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti, e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!

Ambientazione di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther canta (e il display lo conferma) Voilà le carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.  

La Natura, tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria. 

Tutto sommato, pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!

18 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°38


L’ultimo concerto della stagione 2016 vede sul podio un altro uscente (dopo la Xian) dai ranghi de laVERDI: John Axelrod è qui per l’ultima volta in veste di Direttore Principale Ospite. Ciò non significa però che abbandoni di brutto l’Orchestra, che già nella prossima stagione dirigerà in due concerti (dei quali uno in particolare si annuncia assai interessante, con lo Schicchi in forma semiscenica).

Per questo addio-arrivederci il Maestro texano ha scelto musiche del suo Paese, anzi del massimo compositore americano: George Gershwin.

Di cui ascoltiamo subito la Rhapsody in Blue, interpretata al pianoforte da Giuseppe Albanese, ritornato qui in Auditorium dopo due anni e mezzo dalla sua prima apparizione (e ancora con le scarpe bicolori!) È dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Il bravissimo Giuseppe sciorina tutta la sua maestria tecnica, ben coadiuvato dall’Orchestra in cui spicca - ça va sans dire – il clarinetto magico di Fausto Ghiazza. Accoglienza trionfale da parte di un foltissimo pubblico, gratificato addirittura di due encore, sempre di musica yankee: The man I love nella elaborazione di Earl Wild e il bellissimo Hesitation Tango di Samuel Barber.  
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Dopo la pausa ecco Porgy and Bess, di cui ascoltiamo la versione da concerto predisposta da Robert Russell Bennett. Si tratta di 14 numeri dell’opera, l’introduzione e 13 song interpretate da soprano (Adina Aaron) e baritono (Michael Redding). Ma dato che ci sono un paio di numeri per il tenore (Sportin’Life) ecco che nel primo di questi (It Ain’t necessarily so) si esibisce dal podio lo stesso Axelrod, che dimostra così di avere una carriera... di riserva, sai mai che torni utile! È questa l’occasione per impegnare a dovere anche il Coro di Erina Gambarini.

Sono 40 minuti di splendida musica, e la concentrazione di queste particolari arie rischia di provocare quasi un’indigestione (invece, diluite sapientemente nelle 3 ore dell’opera si possono meglio... metabolizzare!)

In ogni caso, ben vengano indigestioni di tal fatta! Bravi tutti e successo enorme, con replica del finale strappalacrime (oltre che applausi) Oh Lawd, I’m on my way.
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Adesso solo una settimana di pausa e poi, il 29/12 con l’immancabile Nona, inizia la nuova avventura 2017, 34 concerti che ci accompagneranno fino a metà dicembre.  

14 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 1


Sta per andare in scena al Comunale di Bologna un atteso Werther in cui debuttano Juan Diego Florez nei panni del complessato protagonista e Michele Mariotti alla concertazione.

Il libretto di Edouard Blau, Paul Miller e Georges Hartmann fu derivato, come sappiamo, dal romanzo epistolare di Goethe (I dolori del giovane Werther) che giocoforza dovette essere smagrito per evidenti ragioni di compatibilità con i requisiti e le esigenze di un melodramma. E purtroppo questa riduzione/compressione ha comportato una serie di problemi, a partire dalla stessa definizione delle personalità dei protagonisti, che ahinoi nel libretto perdono parecchi dei tratti di cui li rivestì il sommo Goethe.

Così Werther ci appare come una sbiadita figura dell’autentico eroe che in Goethe trabocca romanticismo da ogni sua lettera, essendo ridotto qui a poco più di un velleitario e malato sognatore; Charlotte è una ragazza quasi volubile, non dissimula nemmeno la sua attrazione per Werther e il suo legame con Albert pare giustificato esclusivamente da un giuramento impostole dalla madre e accettato solo per dovere, mentre la Lotte di Goethe è una donna con la testa sulle spalle, che ama sinceramente Albert e per Werther prova un’affinità quasi esclusivamente cultural-spirituale; Albert è per Goethe un personaggio di larghe vedute, non esita a riconoscere il fascino che Werther esercita sulla moglie, non teme che i due si incontrino anche da soli, proprio perchè sicuro del rigore e della fedeltà della sua Lotte, mentre nel libretto assume via via i tratti di un marito geloso, che addirittura arriva carognescamente (assai più che nel romanzo, dove si dichiara contrario per principio al suicidio) a costringere la moglie a consegnare l’arma mortale a quello che ormai considera un pericoloso rivale.

L’estrema compressione dei tempi dell’azione - in Goethe, dopo un’introduzione che data dal 4 maggio, si va dal 16 giugno 1771 (incontro di Werther con Lotte) fino alla notte dell’antivigilia di Natale del 1772; nel libretto il tutto inizia in un non meglio precisato giorno di luglio per concludersi nella notte di Natale dello stesso anno (178x) cioè poco più di 5 mesi, nei quali i librettisti hanno dovuto liofilizzare le vicende di 18! - ha finito per creare nel libretto parecchie inconsistenze e salti logici piuttosto evidenti.  

Dunque l’opera inizia in luglio quando Werther, che a mala pena conosce il borgomastro (padre di Charlotte) si reca a casa di costui (facendosela indicare da un contadino) per prelevarvi una ragazza da accompagnare ad una festa: è lì che incontra per la prima volta Charlotte, che immediatamente lo colpisce... a morte. La serata passata in sua compagnia pare avere effetti afrodisiaci anche sulla ragazza-madre (ops... madre nel senso di sorella maggiore di 7 fratellini, come lei orfani della mamma) che arriva persino a scordarsi di essere promessa sposa a tale Albert, giovane, serio e intraprendente uomo d’affari. Costui torna proprio quella sera da un viaggio di lavoro e così il povero Werther deve constatare che la sua Charlotte si è trasformata in un miraggio.

Ora attenzione: nel secondo atto – siamo a settembre - Albert e Charlotte conversano amabilmente davanti alla chiesa e ci fanno sapere di essere felicemente coniugati da tre (!) mesi. Beh, dovremmo pensare che Albert stia un filino esagerando, a meno che il primo atto non si fosse aperto e chiuso il 1° luglio, il matrimonio celebrato immediatamente e il secondo atto sia ambientato il 30 settembre... ma insomma, non sottilizziamo. Ciò che ci interessa è invece scoprire Werther che sembra pedinare e scrutare da lontano i due coniugi, forse per verificare la solidità del loro legame o intravedere qualche falla (che gli dia delle speranze per il futuro) nella predisposizione di Charlotte verso il marito. Di più: Albert scorge Werther, lo avvicina e mostra di conoscerne i sentimenti verso Charlotte: sentimenti che lui non si sente di biasimare (sua moglie è talmente a modo che chiunque se ne potrebbe innamorare). Werther incontra poi Charlotte che lo congeda invitandolo a partire, ma giustificando la loro separazione esclusivamente con un dovere cui lei si deve assoggettare (lei dice Albert mi ama, ma mai... Io amo Albert!) Fatti un bel viaggio e scordami... tutt’al più torna per gli auguri di Natale! Alla notizia che Werther partirà Albert mostra i primi sintomi della gelosia, chiudendo l’atto con un sinistro sguardo alla moglie turbata e mormorando Egli l’ama...

Domanda: preso atto di questo scenario, è plausibile ipotizzare che nei (meno di) tre mesi trascorsi Werther sia stato ospite quasi quotidiano a casa degli sposini Albert-Charlotte e vi abbia incontrato la donna a quattr’occhi, intrattenendo con lei rapporti assai sospetti? Parrebbe proprio di doverlo escludere... e invece è ciò che scopriamo inopinatamente nel terzo atto.

Che si apre alle 5 del pomeriggio della vigilia di Natale, in casa di Albert-Charlotte. Questa scena è completamente inventata dai librettisti, non ve n’è traccia alcuna in Goethe: Charlotte è alle prese con una catasta di lettere inviategli nei tre mesi precedenti da Werther, auto-esiliatosi chissà dove, proprio su suo consiglio. Ma proprio come lei gli aveva suggerito, il giovane spasimante arriva a casa sua e - ohibò – assistiamo qui ad un’assurda, ingiustificata e impossibile serie di ricordi di momenti di grande intimità intercorsa fra i due in quelle stesse stanze - la casa di Albert! - in passato. E quando, di grazia? Fra luglio e settembre, quando Charlotte e Albert erano sposini freschi-freschi e – ne siamo stati testimoni - Werther poteva solo spiarli di lontano? O fra ottobre e Natale, quando Werther era chissà dove e non poteva che scrivere lettere su lettere? Ahi ahi, qui tutto scricchiola maledettamente!

Come si spiega questo clamoroso abbaglio? Precisamente con l’esigenza dei librettisti di comprimere il testo (e i tempi) di Goethe. Come vanno le cose secondo il grande drammaturgo? Ecco qua: dopo il primo incontro al ballo (16/6/1771) Lotte e Werther si ritrovano a casa della ragazza (del borgomastro quindi, non di Albert!) e lei gli rivela tranquillamente di essere fidanzata e innamorata di Albert, che è assente per affari e tornerà 40 giorni dopo, il 30/7/1771. Durante questi 40 giorni Werther incontra più volte Lotte a casa sua (ne fa cenno in due lettere, del 13 e 16 luglio) e fra i due si stabilisce una certa intimità (canzoni che lei suona al clavicembalo, letture un poco galeotte, le loro mani che si sfiorano, sguardi languidi) che lui interpreta (erroneamente, come ci verrà confermato dai successivi sviluppi) come amore da parte della ragazza.   

Ecco, ora abbiamo capito a quali incontri si riferiscono i ricordi della sera di Natale, a casa di Albert, nel libretto dell’opera: peccato che però siano relativi a fatti (raccontati da Goethe) avvenuti a casa del borgomastro prima del matrimonio di Lotte, fatti che sono del tutto incompatibili con la trama del libretto, che ci mostra Albert tornare la sera stessa del primo incontro fra Werther e Charlotte, cui seguirà a tambur battente il matrimonio, mentre il povero Werther (chiusura atto primo) è addirittura disperato!

Il racconto di Goethe prosegue poi con grande dovizia di particolari e con assoluta coerenza: dopo il suo ritorno Albert fa amicizia con Werther e lo invita (12 agosto) a casa sua (qui Werther vede le pistole fatali). Il 10 settembre Werther annuncia a Lotte e Albert la decisione di trasferirsi e a fine mese prende impiego all’ambasciata.  Poi un lungo black-out, rotto dopo quasi 4 mesi (il 20/1/1772) quando Werther scrive a Lotte ribadendole il suo affetto; il 20/2/1772 manda a lei e Albert una lettera di felicitazioni per il loro avvenuto matrimonio (!) Il 19/4/1772 si congeda dall’impiego e torna. Solo dopo altri 5 mesi, il 12/9/1772, incontra nuovamente Lotte a casa sua e di Albert; la rivede regolarmente, sempre a casa sua, a ottobre, novembre e dicembre, approfittando delle continue assenze di Albert, impegnato in viaggi d’affari (sono passati 7 mesi dal matrimonio...) ma si tratta di incontri che (perlomeno nelle intenzioni di Lotte) si mantengono sul piano di amicizia e cortesia, nulla più.   

Anche il finale dell’opera diverge abbastanza da quello del romanzo: è in effetti assai più melo-drammatico! Ma a spese anche qui di un affastellarsi di eventi invero al limite dell’incredibile, se non del ridicolo: Werther che fugge dalla casa di Albert, dopo quella drammatica scenata con Charlotte, Albert che rientra un minuto dopo e trova Charlotte sconvolta, il domestico che arriva proprio in quel momento con la missiva di Werther, Albert che ordina bruscamente alla moglie di consegnargli le pistole, Charlotte che corre fuori in scia al domestico per cercare di raggiungere Werther prima che si spari... (!?) Charlotte trova Werther ancora vivo e gli dichiara il suo amore; Werther (che come ogni tenore che si rispetti, prima di morire canta ancora un’ultima aria) muore contento nelle sue braccia, mentre si odono gli allegri canti natalizi dei fratellini di Charlotte.

Nel romanzo le cose vanno in modo assai più plausibile, ordinato e verosimile: la domenica prima di Natale Albert chiede a Lotte di diradare i suoi incontri con Werther, così lei lo invita a rifarsi vivo non prima del 24 sera (giovedi). Lunedi 21 Werther comincia a scrivere l’ultima lettera a Lotte contenente propositi suicidi (verrà trovata nella sua stanza); va a casa del padre di Lotte e saluta i bambini; la sera torna (anzitempo, rispetto alla richiesta della donna) da Lotte e la trova sola in casa; lei è infastidita, ma lo invita gentilmente a leggerle qualcosa e lui le sciorina una montagna di versi di Ossian, che la turbano profondamente; quindi le si avventa addosso coprendola di baci; Lotte si ritrae sconvolta e si chiude in camera; Werther fugge, torna a casa: il mattino dopo (22/12) completa la lettera per Lotte; poi manda ad Albert il biglietto con la richiesta delle pistole in prestito; Albert e Lotte sono a casa e ricevono il servo di Werther con la lettera: Albert chiede a Lotte di consegnargli le pistole e aggiunge auguri di buon viaggio per Werther; è l’ora di pranzo, Werther vaga ancora per il territorio e poi torna a casa nel pomeriggio e vi trova le pistole; a mezzanotte in punto si spara nell’occhio destro. L’indomani (23/12) viene trovato ancora in vita, muore senza riprendere conoscenza, verso mezzogiorno; la sera alle 11 viene sepolto secondo le sue volontà. Dal giorno precedente Lotte, sconvolta e prostrata immaginando il peggio, non si è più mossa da casa sua.
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Beh, dato a Goethe quel ch’è di Goethe, diamo doverosamente a Massenet ciò che gli spetta. Qui lo fa il grande Antonio Pappano, in occasione di una produzione della ROH con Grigolo e la DiDonato.
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La prima di giovedi 15/12 viene trasmessa da Radio3, ore 20.

11 dicembre, 2016

La Butterfly del 17/2/1904: piace, ma andrebbe fatta a febbraio

 

Per riempire di credibilità la proposta di fare la Butterfly originale, logica vorrebbe che la si fosse messa in scena a partire dal 17 febbraio. Così ci sarebbe stata maggior precisione riguardo alla ricorrenza storica, dato che il 17/2/2017 sarà un venerdi, tipico giorno foriero di disgrazie (smile!) come quel mercoledi del 1904. Il pubblico più, diciamo, preparato, avrebbe volentieri trattenuto la curiosità per un paio di mesi; quello meno preparato starà ancora chiedendosi se il fiorito asil sia stato espunto perchè il tenore aveva problemi a cantarlo...

Meno male che Chailly (che un certo pubblico preparato vorrebbe fosse licenziato in tronco insieme al suo mentore Pereira) ci abbia indorato la pillola in maniera egregia, e insieme con il regista Hermanis ci abbia consentito non solo di non infierire sull’opera, come fecero a suo tempo i nostri nonni e bisnonni, ma di apprezzarla comunque e di applaudirla. Il primo lo ha fatto con una direzione sobria e priva di velleitarismi da quattro soldi e con una raffinata concertazione che ha mascherato alcune (più o meno veniali) pecche della compagnia di canto; il secondo con un allestimento intelligente e rispettoso del testo scritto, suonato e cantato.

Dunque, grande prova del Direttore e dell’Orchestra (dentro la quale mi piace rivedere il bravo Max Crepaldi, storico primo flauto de laVERDI ed ora secondo di Marco Zoni alla Scala) che hanno valorizzato al meglio tutti i tesori di questa partitura, che Puccini dovette amare forse più di ogni altra, stando alle continue cure cui la sottopose durante i 20 anni che gli rimasero da vivere.

Maria Josè Siri è una Cio-cio-san praticamente perfetta sul piano attoriale: si è calata completamente nella psicologia del personaggio, di cui fa emergere tutta la poliedrica complessità, dall’infantile ingenuità fino, all’opposto, all’estrema inflessibilità delle sue convinzioni. La voce è bella, corposa, specie nel centro, e l’espressività (fondamentale in un ruolo come questo) assolutamente apprezzabile. Qualche incertezza mostrata alla prima (come perlomeno emergeva dalla trasmissione radio) è evidentemente stata superata di slancio.

Accanto a lei una convincente Annalisa Stroppa, 30-cum-laude per l’interpretazione e un meritato 27 per il canto: insomma, ha dato il suo fondamentale contributo alla produzione... lacrimogena!

Il presuntuoso imperialista yankee è impersonato da Bryan Hymel: la sguaiatezza psicologica c’è proprio tutta... peccato che non si limiti ai gesti esteriori, ma sconfini un po’ troppo anche nel canto. Tuttavia non mi sento proprio di dargli un’insufficienza: la voce non gli manca, va meglio gestita, evitando ingolature e suoni eccessivamente aperti; che dire, che può solo migliorare (!)

Carlos Álvarez, da vecchio (si fa per dire, a 50 anni...) marpione qual’è, ci propina uno Sharpless precisamente come da copione: un buon padre di famiglia (che questa versione originale priva però di una parte fondamentale del suo ruolo, trasferita a Kate) che non ha, musicalmente, da scalare montagne, e che quindi il baritono spagnolo riveste al meglio della sua voce calda e penetrante.

A proposito di Kate, che qui sottrae a Sharpless una parte di responsabilità, la Nicole Brandolino ha fatto onorevolmente il suo compitino (così fa pure rima): ampia sufficienza per lei, che evidentemente, per andare sul sicuro, parlava sempre rivolta a... Chailly!  

Di Carlo Bosi si conosce la voce squillante e penetrante, doti che contribuiscono a renderci al meglio il personaggio buffo e un po’ vanesio di quel bizzarro venditore di generi assortiti (dalle case alle... mogli) che risponde al nome di Goro.

Gli altri sono personaggi, come si dice in gergo, di contorno; il nobile riccastro Yamadori (un collezionista di mogli cui evidentemente mancava ancora una donna giapponese convertita al cattolicesimo... merce rara) è un dignitoso Costantino Finucci; Yakusidé, che qui ha una parte più corposa che nella versione tradizionale, è Leonardo Galeazzi che ce la propone con sufficiente efficacia. Meno convincente l’invasato zio Bonzo, al quale Abramo Rosalen presta una voce poco... invasata, ecco, di cui Chailly si è forse fidato un po’ troppo. Gli altri cinque (vedi locandina) come da contratto sindacale.

Il coro (di Casoni) deve principalmente (non solo, si capisce) mugugnare (in senso buono, s’intende) e lo fa con la consueta professionalità.
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Alvis Hermanis (alla terza comparsa qui dopo un – per me – lunatico Soldaten e un passabile Foscari) non ha rischiato quasi nulla (e infatti gli schizzinosi che vedono la tradizione come muffa puzzolente lo hanno bersagliato di insulti) e si è concesso poche libertà, tutto sommato non proprio fuori luogo. Ad esempio, la trasformazione della dimora di Butterfly, da tipicamente giapponese (primo atto) a scimmiottante americana (secondo atto) sarà pur assente nelle didascalie del libretto, ma è presente in modo addirittura smaccato nel testo: dalla presentazione di Butterfly (Mrs. Pinkerton, please!) al suo benvenuto al mio console (Sharpless) in una casa americana! Che nei tre anni di attesa la poverina abbia girato i rigattieri di mezza Nagasaki per procurarsi tutto ciò che di occidentale potesse scovare (immagine del Sacro Cuor di Gesù inclusa) è cosa perfettamente compatibile con la psicologia del personaggio, quindi buona l’idea del regista-scenografo.

Assolutamente centrata l’impostazione della recitazione, con punte di diamante le due protagoniste femminili. Belli ed appropriati i costumi (con una piccola caduta di stile per il bonzo, una eccessiva caricatura) e poetiche persino le piante finte con i petali finti (qui peraltro il vecchio Appia avrebbe dato in escandescenze!)

Se si esclude l’esagerata e un po’ disturbante presenza di figure metafisiche... materializzate nell’ultima scena, mi pare che l’impianto del regista sia da giudicarsi più che apprezzabile. Certo, i soliti incontentabili, a cui magari piace vedere la Butterfly trasformata in un crudo e impegnato reportage sul triste fenomeno del turismo sessuale, dove lo spettatore alle lacrime sostituisca l’indignazione, ovviamente parlano di banalità, odore di muffa e scarso coraggio del regista. D’altra parte Puccini era uso dire che il suo obiettivo scrivendo opere era di far piangere il pubblico, non certo di dargli dei pugni nello stomaco!  

Tirando le somme: a parte la scelta della data, mi sento di dire che trattasi di una proposta da promuovere a pieni voti, proprio come ha fatto il pubblico anche ieri notte!

10 dicembre, 2016

Il Romeo&Juliet della mela al Regio

  
Ieri pomeriggio a Torino quarta recita di West Side Story, una produzione della BB del 2003 che ha già visitato alcuni teatri italiani qualche anno fa e che in questi tempi sta facendo un nuovo giro planetario – con nuovi interpreti ma con lo stesso direttore, Donald Chan - in occasione del centenario (2018) degli autori del musical forse più famoso in assoluto. Teatro gremito all’inverosimile e straordinario successo dello spettacolo, un vero gioiello che ripropone quasi alla lettera – regìa e coreografie - l’originale del lontano 1957.

Come sappiamo, il soggetto è una trasposizione moderna di Romeo&Juliet, con molte similitudini e qualche deviazione, prima fra tutte l’epilogo, che a parte le diverse circostanze materiali lascia Maria(Giulietta) in vita: perchè sia la vivente testimonianza della stupidità delle azioni umane.

I protagonisti, tutti, qui devono cantare, recitare e danzare: neanche Wagner aveva saputo realizzare un Gesamtkunstwerk così compiuto (!) E devo dire che tutti, nessuno escluso, hanno fatto splendidamente la loro parte, del resto si tratta di una macchina ormai ampiamente rodata che garantisce sempre il miglior risultato.

Chi può non si lasci scappare una delle restanti tre repliche: sono garantiti divertimento, lacrimucce e sopratutto... grande musica del sommo Lenny!

09 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°37


Ultima apparizione di Zhang Xian sul podio dell’Auditorium in veste di Direttora Musicale de laVERDI (ciò non significa che sparirà per sempre dai Navigli... già nella stagione prossima tornerà per ben 4 concerti!) In programma tutto e solo Beethoven e (quasi) tutti e soli esecutori autarchici, tanto che il concerto sa molto di saggio di fine anno a scuola.

Nicolai Freiherr von Dellingshausen (co-spalla dell’Orchestra, con Santaniello) apre le due parti del concerto esibendosi nelle due Romanze per violino e orchestra: dapprima la più conosciuta (op.50, in FA) e poi con l’op.40 in SOL. Si tratta di lavori chiaramente disimpegnati, ma Beethoven è sempre lui, anche quando si prende qualche attimo di pausa. E il bravo Nicolai si prende i meritati applausi per la sua onorevole prestazione.
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Appunto la spalla storica Luca Santaniello si unisce a Mario Shirai Grigolato (primo violoncello) e al pianista volante Roberto Cominati (che torna qui dopo qualche tempo) per il Concerto triplo. I due agli archi lo avevano già proposto anni fa sempre con Xian e rimando a un post dell’epoca per alcune note sui contenuti del brano.

Se, con una battuta irriverente, dirò che la cosa più interessante è stata vedere Cominati con gli occhiali... non credetemi: un’esecuzione più che dignitosa, se si tiene conto che questo è un pezzo solo apparentemente facile (doveva suonarlo al piano un mezzo principiante, l’Arciduca Rodolfo, allievo del Maestro) ma in realtà ha una struttura e corposità non proprio banali.

Certo, chi ha nelle orecchie esecuzioni come questa magari farà lo schizzinoso, ma io dico bravi a tutti non fosse altro che per averci permesso di godere di questo quasi-capolavoro.
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La chiusura è occupata dalla Quarta sinfonia. Sinfonia pari, quindi sempre sommariamente relegata fra le cenerentole. Così ovviamente non è: l’Introduzione lenta sarà pure un ricordo di Haydn, ma contiene novità mica da poco, con modulazioni enarmoniche che definire ardite (per quei tempi) è ancora poco; il primo tema dovette sembrare un pugno in faccia nell’anno di grazia 1806; il copista meccanicamente scrisse in testa al terzo tempo Menuetto (!) senza accorgersi che non solo è uno Scherzo, ma proprio... da prete (smile!)


Insomma, una signora sinfonia, certo più sulla scia della seconda che della terza, ma sappiamo che anche la seconda non è per nulla una cosuccia trascurable, ecco.

Xian non perde più il vizietto (mica solo suo, s’intende) di cassare brutalmente ogni da-capo, con ciò rendendo a mio modestissimo avviso un cattivo servizio alla Sinfonia. I ragazzi però compensano con una prestazione che questa volta non ha alcuna pecca e si merita prolungate acclamazioni.

08 dicembre, 2016

La Butterfly di SantAmbrogio

 

Dato che la vedrò presto dal vivo, ieri pomeriggio ho preferito ascoltare la Madama su Radio3 invece che (anche) vederla su RAI1, in modo da poter seguire la musica anche con gli occhi oltre che con le orecchie. Occhi puntati sulla partitura Ricordi (in pratica, la versione di Parigi del 1906, quella universalmente impiegata e rappresentata) e il libretto (dal sito del teatro) che riporta il testo della ricostruzione della versione originale, fatta da Julian Smith, che evidenzia le parti presenti nella versione della disastrosa prima del 1904, successivamente tagliate (o in parte modificate) da Puccini.

Il fatto stesso che si parli di ricostruzione lascia capire come della versione 1904 non esista un riferimento authoritative (come si dice in gergo) e quindi come si debba andar piano a sostenere che ciò che si è udito ieri sia precisamente ciò che venne sonoramente disapprovato in quella lontana prima alla Scala. Personalmente lascerei queste primizie (quando sono – manifestamente – di qualità inferiore a ciò che si è in seguito consolidato) ad occasioni diverse da un SantAmbrogio: questa del 2016 mi ricorda la ri-apertura (con la famigerata Europa riconosciuta) del 2004, ecco.  

Chi ha visto l’opera in teatro o alla TV senza conoscerne più che bene la versione tradizionale probabilmente avrà potuto cogliere solo poche macro-differenze: come l’aggiunta della scenetta da avanspettacolo dell’ubriacone Yakusidé e la scomparsa del fiorito asil. In realtà le differenze sono numerose e attengono principalmente (nel primo atto) a battute piuttosto volgari ed offensive, al limite del razzismo, nei confronti della civiltà del Sollevante, battute dove oltretutto la musica tende ad allinearsi alla volgarità del testo. Forse per compensare questi tratti di anti-giapponesità c’è anche una battuta anti-yankee, laddove Butterfly, nel duetto di fine atto I, confessa a Pinkerton di averlo considerato (prima di conoscerlo) un barbaro, una vespa in quanto americano. 

E proprio quel passaggio (dalle parole di lei - Pensavo, se qualcuno volesse - a quelle di Pinkerton - Racconta) mi pare uno dei peggiori, sia dal punto di vista musicale che drammatico: quella rievocazione che Butterfly fa delle circostanze di natura commerciale che portarono al loro incontro provoca (nella prosaicità del testo e nell’insignificanza dell’accompagnamento musicale) una tremenda caduta di tensione all’interno di quel mirabile duetto che è una delle vette più alte dell’opera. E anche la scena dell’arrivo di Sharpless e dei coniugi Pinkerton nel finale è decisamente più debole (e non solo per il mancato Addio, fiorito asil) nella versione originale: la parte di Kate è assai più sviluppata (è lei che direttamente tratta con Butterfly la cessione del bambino) ma a scapito del realismo e della tensione drammatica, che invece troviamo nella versione divenuta poi tradizionale (dove è Sharpless a convincere la poveretta). Anche il passaggio del tentato pagamento dei danni (Sharpless che cerca senza successo di consegnare a Butterfly i denari di Pinkerton) è francamente insopportabile in quell’atmosfera carica di tensione che segue le parole di lei (Fra mezz’ora salite la collina) che nel libretto originale oltretutto devono essere ripetute poco dopo. 

E mi fermo qui, ma si potrebbe continuare nell’elencazione delle debolezze di questa (sedicente) versione originale. Insomma, siamo proprio sicuri che il fiasco di quel mercoledi 17 febbraio 1904 fosse dovuto esclusivamente alle trame di Sonzogno?      

Dirò la mia sull’esecuzione e sull’allestimento dopo l’esame in-corpore-vili; per ora mi fido delle impressioni di Amfortas, che come al solito si è eroicamente esposto a botta calda.

03 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°36


Zhang Xian si ripesenta sul podio dell’Auditorium per il terz’ultimo concerto della stagione, che è anche il suo penultimo da Direttora Musicale de laVERDI. Il programma affianca due Rachmaninov (assai diversi fra loro) al Beethoven rampante dei primi dell’800.  

Si apre con un brano piuttosto sconosciuto, quasi un’opera prima, La roccia, che Rachmaninov compose nel 1893, a 20 anni, appena diplomatosi al Conservatorio di Mosca. Lavoro per la verità dalla forma abbastanza indecifrabile: Fantasia (come recita il frontespizio della partitura) ma anche Poema sinfonico, come dimostrerebbero le due (neanche una) fonti di ispirazione citate dal compositore medesimo: un gran nuvolone dorato che si posa di notte sul fianco di una roccia (versi di Mikhail Lermontov); ma anche un racconto di Cechov (Sulla strada) che narra di un vecchio e una ragazza che si incontrano in una notte di tempesta, prima che le loro strade si dividano...

La struttura del brano è – grosso modo – tripartita: si apre con l’esposizione di tre gruppi tematici, che vengono quindi ri-esposti (e sviluppati); il primo e il terzo occupano poi la sezione conclusiva del brano. L’armatura di chiave presenta 4 diesis, ma il MI emerge faticosamente, in mezzo a continue modulazioni. Proviamo a decifrarne il contenuto seguendo l’intrepretazione di un venerabile direttore russo: Evgeny Svetlanov
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Sono gli archi bassi (con breve intervento dei fagotti) a presentare – in tempo Adagio sostenuto - un primo tema A dal carattere piuttosto lugubre, che si innalza (dal pianissimo verso il forte) per poi degradare (tornando a pianissimo) verso il MI grave:

Possiamo immaginare – se proprio vogliamo seguire il riferimento extra-musicale – che questo motivo evochi la mole imponente della roccia che ci sta di fronte.

A 48” un tremolo degli archi alti - sul quale si innestano due incisi del secondo corno che richiamano il picco (DO-SI) raggiunto nell’esposizione del tema A – prelude alla presentazione nel primo flauto (Più vivo, 1’07”) del tema B, in MI maggiore, che dovrebbe richiamare le soffici forme della nuvola che avvolge la roccia:

Nuvola che successivamente (1’31”) si arricchisce di nuove evoluzioni, rappresentate da tre ascese nei legni (sostenute dal tremolo degli archi) ciascuna seguita da altrettante ricomparse del tema B nei legni arrichito ora (nei primi due ritorni) da ampi svolazzi dell’arpa (la brezza che muove i nembi?)  

Ecco a 2’18” comparire in flauto e oboe il tema C, di carattere languido e dolente (potrebbe forse evocare lo stato d’animo non proprio sereno di un osservatore di fronte a quello spettacolo naturale...):


È esposto inizialmente nel modo minore di SI (dominante del MI di impianto) con i violini a sostenerlo con RE tenuto (i primi) e a crome sforzate (i secondi): si noti la dissonanza creata da questi RE con il DO# del terzo tempo della battuta, un segno di modernità e quasi di sfrontatezza del giovane compositore.

Il tema viene ampiamente sviluppato da clarinetto e fagotti fino a sfociare, dopo una reiterazione in accelerando in corno e oboe, in una sua vigorosa riproposizione (Allegro molto, 3’00”) in SI minore, poi (3’14”) MI minore, quindi (3’20”) in SOL minore, e infine (3’27”) ancora in SI minore di tutta l’orchestra. Ecco quindi un rallentando generale che ci porta (3’38”, Moderato) alla chiusura dell’esposizione, con la comparsa di un ponte che introduce quello che di fatto si può definire uno sviluppo dei temi or ora presentati.

Dopo otto battute di ondeggianti crome del flauto su accordi dell’arpa e semiminime in trillo del violini secondi, ecco altre otto battute (4’06”, Un poco meno mosso) dove gli strumentini si sbizzarriscono in semicrome fortemente staccate, mentre sono i violoncelli e i corni a ripercorrere la melodia del tema A. Ancora quattro battute (4’33”, Moderato) con i flauti a ripetere la figurazione precedente ed ecco (4’47”) ricomparire (in minore) il tema B nel flauto spalleggiato dal clarinetto. Abbiamo ora (5’08”) la riproposta, variata, della tripla sequenza già udita più sopra (1’31”) sfociante nel ritorno (5’46”) del tema C, qui in FA# minore, poi (6’06”) in LA minore. Si accelera verso un Quasi presto (6’23”) dove il tema C viene esposto, abbastanza stravolto, dai primi violini, spalleggiati da arpa e corni per arrivare (6’59”, Moderato) al ritorno del tema B, in modo minore, che va lentamente a spegnersi finchè (7’33”, Meno mosso) gli subentra un passaggio in tremolo dei violini con il corno sullo sfondo, passaggio che, sempre Meno mosso, culmina in un perentorio SI, dominante del MI sul quale riudiamo (8’35”) ancora il tema B nei legni, letteralmente avvolto dalle semicrome delle arpe e dalle biscrome dei violini (insomma: il nuvolone che si espande in tutta la sua magnificenza): si tratta di una specie di cadenza, che si esaurisce completamente fino a spegnersi (9’55”) per dare spazio ad un Allegro con agitazione.

Siamo in effetti arrivati alla sezione finale del brano: sono 14 battute sul tema A che riaffiora negli archi bassi e porta, con un progressivo diminuendo (10’28”, Meno mosso) all’intervento di violini e viole che ripropongono il tema A in modo sempre più insistente, fino ad un lungo e strascicato crescendo che ci conduce ad un’esplosione (11’51”, Allegro  moderato) dove il tema si dilata a dismisura, negli ottoni, per poi degradare ancora verso il MI grave.

Qui (12’37”, Moderato) un tremolo degli archi con l’arpa in armonici ci conduce (12’44”) ad una riapparizione, nel corno, del tema C che sbocca (13’04”) in un gran tonfo dell’orchestra, che si ripete ancora poco dopo (13’42”) per lasciar spazio ad un reiterato succedersi di MI e infine (14’20”) a due ultimi respiri del tema A, prima della sommessa conclusione sull MI grave degli archi bassi, accompagnato da sommessi rintocchi del timpano.
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Che dire, sarà pure un Rachmaninov ancora acerbo, ma le promesse per un futuro di innovazione c’erano tutte. La successiva Prima Sinfonia in fondo confermava quel trend, ma digraziatamente fu demolita già all’esordio da un’esecuzione (Glazunov sul podio) a dir poco scandalosa, e così il povero Sergei rischiò addirittura la... pelle e quando risorse a nuova vita era semplicemente un altro, ecco.

L’op.43, Rapsodia su un tema di Paganini, arriva ben 40 anni dopo, nell’ultimo periodo di vita di Rachmaninov, caratterizzato da un impegno sempre più rarefatto nella composizione. A proporcela (a quasi 4 anni di distanza dall’apprezzata interpretazione della Zilberstein) è un ragazzino, il non ancora 24enne tulipano Lucas Jussen, che ha un fratellino di 20, Arthur, pure lui pianista.

La tecnica è fenomenale, e – diciamolo pure – in un brano come questo pesa per il 95% almeno, il che garantisce al simpatico Lucas grandi applausi, ricambiati da un romantico bis.
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Si chiude con Beethoven e la sua Seconda: come la altre pari è spesso trattata alla stregua di un’opera di transizione, se non di riflusso. Nulla di più errato, poichè invece ci si trovano spunti di innovazione assolutamente rilevanti. La sua stessa durata (eseguendo i da-capo) è inferiore soltanto a quelle della nona e della terza ed uguaglia sesta e settima, tanto per considerare un parametro magari non estetico, ma che testimonia della serietà con la quale Beethoven affrontò questo impegno.

Ma le novità della sinfonia non finiscono qui: a partire dal movimento iniziale, che apre à la Haydn, ma poi si prende grandi libertà nei confronti della forma-sonata, tanto come deviazioni dalla tonalità di base (RE) che per la ricapitolazione, che pare un secondo sviluppo.   

E poi c’è una cosa che deve aver fatto rizzare i capelli in testa non solo all’establishment, ma anche alla maggioranza silenziosa dei frequentatori dei concerti: nel cesso il vecchio, nobile, caro, innocente e pudico menuetto, sostituito da un volgare, impertinente, plebeo e blasfemo scherzo!

E a proposito di cessi, è leggenda metropolitana che il finale sia stato ispirato da... disturbi gastro-intestinali, dei quali Beethoven soffriva assai (come non bastasse l’incipiente sordità) quando componeva la sinfonia.

Insomma, senza esagerare troppo si potrebbe dire che questa sia la prima eroica del nostro!  

Purtroppo Xian l’ha piuttosto bistrattata, a cominciare dall’eliminazione (suo solito peraltro) dei ritornelli e dall’accentuazione eccessiva delle dinamiche. I corni, da parte loro, si sono adeguati con più di uno svarione, il che ha contribuito a rendere il tutto abbastanza... raffazzonato, ecco. Speriamo che domenica le cose migliorino.

29 novembre, 2016

La farfalla ferita

 

SantAmbrogio si avvicina, così cominciamo a prepararci al fatale appuntamento... Ma un attimo: siamo sicuri poi che la Scala il 7 dicembre sia ancora in piedi? Eh sì, perchè tre giorni prima ci sarà stato l’armageddon e, dovesse sciaguratamente prevalervi il NO male, chi ci garantisce che anche il più famoso teatro italiano non faccia la fine (data per sicura da serissimi esperti) delle otto banche in sofferenza?

Mah, tutti quelli che se ne intendono (e quindi osteggiavano la brexit e acclamavano la hillary) ci garantiscono che il NO male non prevarrà... così possiamo scacciare gli incubi e continuare la nostra preparazione al grande evento!

Dunque, la Butterfly! Eh, sembra facile dirla così, ma quale Butterfly ci potremo godere (o sorbire, a seconda delle nostre attitudini pucciniane)? Sì, perchè di Butterfly (e tutte di Puccini!) ce ne sono due, no tre, anzi quattro, ma che dico: cinque; e mi voglio rovinare... addirittura sei, e se ancora non vi bastano, pure sette! Chi non ci crede o non ha potuto seguire la due-giorni (10-11 novembre) tenutasi al Ridotto Toscanini sull’argomento, si può convincere leggendo un saggio del super-esperto in materia Dieter Schickling (lo trovate, tradotto da un altro super-esperto, Michele Girardi, su questo mirabile programma di sala della Fenice, alle pagine 29-42; oppure in originale in lingua inglese qui, alle pagine 108-123).  

Riccardo Chailly ha promesso di farci un regalo (ma sarà poi davvero un regalo?): proporci la Butterfly che venne proditoriamente ferita (non ammazzata, per fortuna) quel mercoledi 17 febbraio 1904, proprio al Piermarini, per poi risorgere dalle ceneri il successivo 28 maggio (un sabato) a Brescia. Per poi subire continui ritocchi (tagli, soprattutto) in ondate successive, fino a stabilizzarsi (perlomeno a livello di repertori dei teatri) su un assetto vicino a quello assunto in occasione delle prime esecuzioni parigine del 1906, influenzate (nel bene e nel male) da quel vecchio volpone che rispondeva al nome di Albert Carré.

In soldoni e un-tanto-al-kilo, rispetto alle Butterfly che troviamo ogni giorno sugli scaffali di tutti i supermercati nei programmi di tutti i teatri, cosa ci dobbiamo aspettare? Di perdere Addio, fiorito asil e in cambio di trovare un po’ più di giapponesità assortite.

Ne sarà valsa la pena? (O certe novità converrebbe lasciarle a qualche festival balneare?)

28 novembre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 3 (con brivido)


Ieri pomeriggio Bergamo ha ospitato la seconda e ultima sua rappresentazione di Rosmonda d’Inghilterra, seguita alle tre fiorentine, date in forma di concerto lo scorso ottobre. Quattro dei cinque protagonisti hanno le stesse facce (e voci, soprattutto) di scena a Firenze; il quinto è il nuovo Enrico di Dario Schmunck, che rimpiazza per l’occasione Michael Spyres. Non muta il concertatore (Sebastiano Rolli) mentre cambiano i complessi strumentali e corali che qui sono autoctoni (Orchestra Donizetti Opera, Coro Donizetti di Fabio Tartari); e si aggiunge di bel nuovo la regìa di Paola Rota, con scene e luci di Nicolas Bovey e costumi di Massimo Cantini Parrini.

Alle ore 15:45 (teatro abbastanza gremito) ancora non si comincia: un indebito quarto d’ora accademico (ci si chiede)? Poi l’annuncio addirittura drammatico: Eva Mei vittima di un grave (sic) incidente poco prima dell’inizio... Però canterà ugualmente, seduta in un angolo del palco, e sostituita in scena (muta) dalla sua vice. Finalmente alle 15:50 Rolli attacca la Sinfonia, e 12 minuti dopo, quando è il turno di Leonora, la sedia viene rimossa e la Mei fa capolino dalle quinte con le sue gambe e canta (quasi) normalmente. Così per l’intero primo atto. Poi, prima dell’inizio del secondo, si annuncia che la cantante è in grado di esibirsi normalmente anche in scena, e così accade fino a fine recita.

Beh, tutto è bene ciò che finisce bene, anzi mi sento quasi di dire che l’incidente abbia persino giovato alla Mei, che ho trovato meglio che a Firenze!

Già che parlo di interpreti, continuo con la Pratt: come sempre sontuosa negli acuti (e sovra-) sciorinati come noccioline, che le garantiscono trionfali ovazioni da stadio; non più che dignitosa nell’ottava bassa. La Lupinacci conferma l’ottima tecnica, a dispetto di una voce piccola che (complice Rolli) un paio di volte viene coperta dall’orchestra.

Schmunck mostra una voce piuttosto logora, poco penetrante e pare anche a corto di fiato, oltre che talvolta un filino calante: il suo non è certo un Enrico memorabile. Ulivieri se la cava con mestiere, dignitoso ed equilibrato, senza forzature o schiamazzi, ecco.

Il Direttore, che nel mese trascorso da Firenze ha mandato a memoria l’intera partitura, ha confermato buone doti di concertatore (a parte un paio di fracassi incontrollati di cui ho detto sopra). Onorevolissima la prestazione di orchestra e coro.
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Quanto al contenuto, si è qui presentata una terza (come minimo) variante della partitura (già a Firenze se ne erano sentite un paio): ripristinato lodevolmente nel 1° atto l’intervento di Arturo (da fuori) sulla cavatina di Rosmonda. Il finale sembra deciso ogni volta tirando i dadi; dunque: a Firenze (prima) si smentisce il libretto originale fiorentino (Trema, Enrico, io regno ancor!) e si chiude con il moncherino del finale di Napoli (Ella spira! Duolo, amor) pubblicato sul programma di sala; poi, sempre a Firenze (terza) si chiude con il finale fiorentino (smentendo il programma di sala!); ieri a Bergamo il programma di sala presenta il finale originale fiorentino e invece l’opera chiude (come alla prima di Firenze) con il moncherino di Napoli! Peccato che sempre sia stata omessa la finale (napoletana) Tu spergiuro, una delle cose migliori dell’opera, insieme a Ti vedrò, donzella audace, cui si preferisce l’originale  mi serba, mi seconda. Insomma: edizione critica o crisi dell’edizione?


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Per chi (come il sottoscritto) aveva già udito (una alla radio) due delle tre prestazioni fiorentine, un interesse particolare era rivolto alla messinscena. Paola Rota opta per uno sparagnino minimalismo spinto: scene spartane (sfondo fisso con parete illuminata e due nudi pannelli che traslano orizzontalmente); suppellettili ridotte ad un tavolino e due sedie; costumi dei protagonisti belli quanto improbabili, mentre il coro è fatto di... pipistrelli, che all’inizio sono pure dotati di parapioggia (mah...) Comunque nulla di trasgressivo e (sperabilmente) di costoso, il che è già qualcosa.

Pubblico, come detto, abbastanza folto e assai caldo, prodigo di applausi a scena aperta a fine di arie, duetti e cori e lungamente plaudente al termine della recita. Quindi: brava Bergamo e viva Donizetti!