ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

19 dicembre, 2015

Riecco la Giovanna: salvata dal rogo dai registi?


Mah, io mi convinco sempre di più che debba essere salvata – nel senso di tenuta lontana! - da registi cialtroni e da esegeti con la puzza al naso. Dichiaro subito: non considero assolutamente la Giovanna un capolavoro, chè altrimenti dovrei inventarmi qualche astruso neologismo per apostrofare Otello… Ma allo stesso tempo penso che sia sommamente sbagliato sostenere che tutto ciò che capolavoro non è sia per definizione ciofeca. In un’ipotetica piramide suddivisa orizzontalmente in tre sezioni, collocherei Giovanna nella parte alta di quella mediana, ecco. Quindi: tutto salvo che brutta, come la catalogò il pur sommo Massimo Mila, assieme ad altre cinque sorelle derelitte, tra le quali un’altra opera che si appresta ad aprire la stagione 2016 in uno dei principali teatri italiani (Attila, a Bologna).

Nel suo citato testo (dove si riassumono le lezioni universitarie da lui tenute negli anni ’60) Mila affianca a benevoli apprezzamenti di tono paternalistico autentiche stroncature di ferocia inaudita. Della cavatina Pondo è letal il nostro parla come di crollo (estetico); poi di perfetto esempio di oziosa coniugazione melodica a puro scopo edonistico, per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere al tenore l’esibizione delle sue facoltà; poi ancora di melodia sciocca e fatua; e infine pure… gaglioffa! Accipicchia: messa così si dovrebbe allora buttare nel cesso mezzo Verdi, dalla pira alla donna mobile, ai bollenti spiriti (tanto per restare alla invece santificata trilogia): non sono altrettanti pretesti per blandire l’orecchio dell’ascoltatore e permettere esibizioni delle facoltà del tenore?

Dopo aver liquidato di passaggio come poco significante la melodia della cavatina Sempre all’alba, Mila apostrofa come un caso di brutto-oltraggioso e come goffaggine e gagliofferia il coro dei demoni (al ritorno nel second’atto lo definirà futile barcarola). È vero che la bizzarra filastrocca di Solera è perenne oggetto di lazzi e sberleffi, ma in realtà rappresenta perfettamente gli stereotipi radicati nelle usanze del popolino, riassumibili nel concetto: ogni lasciata è persa… Quindi il testo e la musichetta di walzer che lo sorregge sono (per me) un mirabile esempio di equilibrio e di stile, mi verrebbe persino da spendere il termine poesia per definirli. Mila poi così si esprime sul duetto Son guerriera: un’atroce cabaletta (…) su un accompagnamento dozzinale; che dopo la parentesi del terzetto a cappella, viene ripresa dai tre che si mettono a berciare (…) sul suo sfacciato accento giambico.

Le due sezioni dell’aria doppia di Giacomo (atto II) sono (è sempre Mila) melense e oziose, melodicamente cincischiate. Cincischiata è anche la romanza di Giovanna (O fatidica foresta). Il duetto Giovanna-Carlo è affetto dal più vieto e superficiale dinamismo rossiniano (per Gino Roncaglia è uno dei momenti più stolidi dell’opera). Quanto al finale dell’atto II, esso mescola autentiche intuizioni drammatiche a obbrobriose banalità. Qui Mila si lascia purtroppo andare ad una miserabile considerazione di carattere ideologico: a proposito dell’ultimo intervento dei diavoli che cantano vittoria, scrive di brutale arpeggio, una specie di “Allarmi, siam fascisti!” Ora, che quell’inciso sia stato impiegato da tale Mario Ruccione (o chi per lui, e coscientemente o per pura combinazione) per supportare il testo dell’Inno fascista di Luigi Landi sarà pur vero, ma accadrà 90 anni dopo la composizione di Giovanna: e da quando in qua le colpe dei pronipoti ricadono sui bisnonni?

La marcia che apre l’atto III è da Mila benevolmente accreditata di essere un lontanissimo antefatto di quelle (…) del DonCarlo o dell’Aida, ma forse meglio come documento delle attività municipali del giovane Verdi per la banda comunale di Busseto (!) Più avanti affermerà che Verdi non aveva neanche tentato uno sforzo d’ambientazione storica (cioè, ndr: la banda comunale di Reims?!? Ah no, la Messa di Machaut!) Gli interventi di Giacomo (recitativo, romanza, declamato e aria) vengono liquidati come privo di interesse, con accompagnamenti convenzionali, senza importanza musicale, piuttosto banale melodicamente… Il concertato finale ha una realizzazione men che modesta (…) senza reale consistenza di valori né musicali, né drammatici.

Il quarto atto è considerato da Mila (con la prima parte del primo) la cosa migliore dell’opera. E meno male! Perchè anche qui non mancano accuse di cadute nella banalità convenzionale, di incompatibilità stilistiche, di superficiale ed edonistica ricerca della bella melodia. Ancora: recitativo banalevolgari ritmi orchestrali di accordi ribattutiprogressione volgarebrutale, di gusto discutibile… 
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Mah, credo che si possa tranquillamente negare alla Giovanna lo status di capolavoro senza per questo abbassarsi a simili (abbastanza) gratuite denigrazioni, ecco.

E la più chiara risposta alle denigrazioni dei critici alla Mila viene proprio dal fronte musicale di questa produzione scaligera (ieri sera quinta recita - primina del 4 esclusa) e da chi ne è responsabile in-primis: Riccardo Chailly. La cui direzione ha precisamente trasformato in pregi tutti i difetti attribuiti alla musica: nulla di ciò che si ode qui è banale, cincischiato, volgare, brutale o discutibile, poiché tutto ha un senso narrativo assolutamente coerente ed esteticamente nobile. A partire dalla Sinfonia, che in sé concentra mirabilmente sia i contenuti pubblici (storici, religiosi) del dramma, sia quelli legati alla sfera privata ed alla psicologia dei protagonisti. Se devo proprio trovare un pelo nell’uovo nella direzione del Maestro citerò due, massimo tre circostanze in cui il fracasso orchestrale ha parzialmente coperto le voci (di Meli, nella chiusa della cavatina d’esordio, e Álvarez, nelle arie del primo e second’atto). Per il resto, si merita alle mie orecchie un voto fra il buono e l’ottimo. Stesso voto da attribuire all’Orchestra, che ha risposto proprio come un unico strumento alle sollecitazioni di Chailly.      

Anna Netrebko non avrà un timbro di voce dei più gradevoli (quando sale agli acuti) ma la facilità con la quale supera gli ostacoli di una tessitura massacrante (nell’estensione e nelle perorazioni a voce piena, vedi finale terzo) e la potenza del suo strumento, che invade anche gli spazi siderali di un Piermarini, fanno di lei una Pulzella di valore assoluto.

Francesco Meli si conferma tenore di altissima qualità: non una sbavatura sul lato tecnico (intonazione e aderenza al testo) e grande attenzione a tutte le sfaccettature che la parte di Carlo presenta a livello di espressività. La voce non ha certo la potenza di decibel della Netrebko e ciò ha comportato (complice Chailly, come detto) qualche circoscritto problema di udibilità, ma parliamo di piccoli dettagli che nulla tolgono all’eccellenza della prestazione complessiva. E qualche attenuante Meli la può vantare a carico dei registi, che lo costringono a cantare spesso e volentieri sdraiato per terra, appoggiato su un gomito.

Carlos Álvarez, alla sua seconda prova dopo i forfait iniziali, non ha mancato di portare il suo contributo di grande esperienza e mestiere: anche per lui vale il discorso sulla potenza dello strumento fatto per Meli. In ogni caso il suo è stato un Giacomo più che convincente.

Bene i due comprimari: soprattutto Dmitry Beloselskiy, un efficace Talbot; e poi Michele Mauro, onesto Delil.

L’altro personaggio di importanza capitale è il Coro: e quello di Casoni ha mostrato ancora una volta la sua eccellenza in opere come questa; sempre compatto e preciso, sia quando si deve far udire – in modo arcano - cantando fuori scena, sia nelle irruzioni a tutta forza cui è chiamato da Verdi nelle grandi pagine di carattere retorico.

Insomma, una Giovanna per la quale mi sento di sprecare l’attributo di superlativa, ecco.       
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Superlativa sul piano musicale. Quanto ai registi, ciò che compare sul programma di sala sulla loro concezione dell’opera è talmente contorto e contraddittorio da farli apparire come due pesci fuor d’acqua che hanno preteso di mettersi a correre in un autodromo…

Raccontare la storia di un certo personaggio facendola vivere ad un nuovo soggetto che nulla ha a che fare con il personaggio in questione, ma che – causa turbe psichiche assortite - immagina, vorrebbe, millanta, crede o sogna di esserlo, e di lui (lei) veste i panni, è idea tanto geniale quanto frusta, ma soprattutto estremamente rischiosa. Principalmente perché il nuovo protagonista, affinché tutta l’operazione abbia un senso qualsivoglia, deve necessariamente comportarsi in modo difforme dall’originale, e l’ambiente (materiale e umano) in cui esso si muove deve necessariamente essere diverso da quello in cui si muove l’originale. In caso contrario l’idea registica va subito a meretrici, chè si riduce allora a far scimmiottare ad alcune controfigure le stesse gesta del protagonista originale e di chi gli stava attorno, dando luogo ad una semplice, banale, stupida e soprattutto peggiorativa imitazione, o al massimo ad una parodia.

Ed è proprio ciò che succede con questa regìa, che invece di aggiungere valore ad un’opera che ne avrebbe (secondo i registi e gli esegeti con la puzza al naso) assai poco, finisce per sottrarre valore ad un’opera che non è assolutamente la ciofeca che costoro vorrebbero dipingerci. Insomma: ai due registi non è parso vero di poter sfruttare a proprio vantaggio tutte le facili stroncature di cui è fatto oggetto da sempre l’originale (il testo di Solera, ma anche la musica di Verdi) ed hanno quindi avuto buon gioco nel decidere – per loro stessa ammissione – di cambiargli i connotati! Permettendosi quindi di sbeffeggiare non solo il Solera, ma anche il Verdi, che il libretto di Solera aveva evidentemente apprezzato (e sappiamo quanto il cigno di Busseto fosse esigente in fatto di livello estetico dei testi da musicare.) Purtroppo per loro, non siamo ancora arrivati ad accettare che il testo e la musica originali vengano anch’essi modificati in relazione al Konzept registico, cosicchè i poveri registi sono costretti comunque con l’originale a farci i conti: e da qui nascono un’infinità di incongruenze e di stupidaggini, che finiscono per rendere il soggetto da loro manipolato ancor più criptico e paradossale di quanto l’originale non venga da loro dipinto.

Nel soggetto di Solera-Verdi il privato dei personaggi (con tanto di rapporti conflittuali e/o amorosi, di sentimenti e ipocrisie, di egoismi e pregiudizi e di schizofrenie assortite) occupa di certo una posizione preminente, ma non esclusiva, dato che si inserisce in un pubblico rappresentato dallo scenario politico della guerra dei 100 anni. Certo, l’opera non vuole essere un testo di storia per le scuole medie, nondimeno la Storia (per quanto falsificata, proprio a partire dal dramma di Schiller cui si ispirò Solera) ne è parte integrante e irrinunciabile, coinvolgendo comportamenti di popoli, eserciti, sovrani e comandanti (quindi testo e musica di cori e singoli). Così come la Religione, che mette il naso sia nel privato che nel pubblico e condiziona credenze, costumi, giudizi, e quindi comportamenti (leggi sempre: testo e musica) degli individui e delle masse. Insomma, accanto a quelli di natura privata e personale, gli aspetti relativi a tematiche di natura pubblica (politica, religiosa) sono fondamentali nell’originale di Solera-Verdi, dove l’individuo (tutti i protagonisti) opera e si muove all’interno di una società di cui subisce i vincoli e con le regole (politiche, religiose) della quale si deve continuamente confrontare. (È vero o no che si parla di Giovanna come di un passaggio che avvicina Verdi al GrandOpéra meyerbeeriano? e ci sarà pure un motivo…) 

Ebbene, tutti questi aspetti vengono distorti e ridotti a parodia dall’idea dei registi di mettere al centro della loro messinscena nemmeno più una persona, ma addirittura la sua patologia: ecco allora che tutto quanto ruota intorno a quella persona perde totalmente di pregnanza e persino di significato, essendo stato degradato a pura proiezione del subconscio di un individuo malato di mente: ciò che rimane allo spettatore è il racconto di un caso clinico più o meno interessante o disperato, ma nulla più. 

Emblematica della confusione generata nello spettatore dall’idea registica è la figura di Giacomo. Al quale i registi sono costretti (dal libretto di Solera che loro non si azzardano a modificare) a far assumere il magico ruolo di intermediario fra la realtà - di metà ‘800, dove in questa produzione è ambientata l’opera - e le fantasie della figlia (epoca 1429-31). Lui è infatti il padre sano della falsa Giovanna, malata di mente, quindi è chiamato contemporaneamente a prendersi cura della salute della povera figlia, ma anche a tenerle bordone diventando protagonista delle sue allucinazioni: andando a trattare per consegnarla agli inglesi di Enrico VI; poi accettando di svergognarla pubblicamente davanti a Carlo VII a Reims; infine consentendole di compiere la sua ultima impresa guerresca.

Ecco, ciò che lo spettatore fatica a comprendere sono le due trasformazioni della figura del padre (andata e ritorno, fra realtà e sogno della figlia). La prima è appena-appena percettibile allorquando si rialza il sipario (che durante la Sinfonia si era già alzato e poi riabbassato per mostrarci l’ambiente ottocentesco dove Giovanna malata è assistita dal padre): qui si odono i cori (nascosti in penombra dietro una vetrata) e poi qui arriva il dorato Re Carlo. Ebbene, del padre (vero) di Giovanna si intravede solo un braccio sporgente da una poltrona che dà le spalle al pubblico e sulla quale lui è evidentemente addormentato, poiché d’ora in avanti sarà anche lui parte delle allucinazioni di Giovanna. Ma mi domando quanti abbiano potuto afferrare questo dettaglio fondamentale della concezione registica. Peggio ancora la scena finale, dove si torna alla realtà di Giovanna malata e morente: qui testo e musica costringono i registi a far convivere la realtà (la poveretta assistita dal padre) con la fantasia: Re Carlo che assiste di persona, dovendo cantare insieme ai due e agli spiriti. Insomma, un bel… risotto. 

E sì che nell’originale di spunti interessanti per una regìa davvero di rottura ce ne sarebbero: ne cito solo un paio. Diavoli-Angeli: che fosse volontario o meno da parte del librettista, ecco un curioso ma significativo risvolto filosofico nelle figure di questi esseri ultraterreni: i primi (fate l’amore e non la guerra) sono dei pacifisti; i secondi dei biechi guerrafondai!

E poi la Madonnina (che te brilet dè luntan…): i registi ne mettono una statuetta di cartapesta (o di legno o coccio) da giardino (o presepe-gigante) in braccio a Giovanna, che se la porta dietro e poi la lascia al proscenio, sempre a portata di… sguardi del pubblico. Ecco, questa sarebbe anche un’idea condivisibile (a parte le dimensioni esagerate…) stante la devozione che la Giovanna di Solera (così come quella di Schiller) ha per la Vergine Maria, dalla quale ha avuto l’imbeccata per… arruolarsi. (Nella realtà la pulzella aveva invece ben tre sponsor, fra arcangeli e sante.) Però attenzione: in Solera (non in Schiller, ma qui chi fa testo, col permesso dei registi, è di diritto il librettista!) la Madonna è anche l’imbeccatrice di Re Carlo! Che si mostra a lei devoto altrettanto, se non più, della pulzella. E allora ecco che i registi hanno dimenticato di mettere in braccio al reuccio un’altra madonnina, un po’ diversa però da quella di Giovanna. Sì perché avrebbe dovuto avere un manto recante la union-jack, visto che ha ordinato a Carlo di arrendersi all’albionico invasore, cedendogli gentilmente il trono! La madonnina di Giovanna andava a quel punto rivestita con il tricolore, avendo manifestato invece patriottismo per la Francia. Poi, alla fine del primo atto, Carlo avrebbe dovuto strappare il manto traditore alla sua madonnina, e rivestire anche quella con il tricolore, oppure buttarla direttamente in un cassonetto per trastullarsi anche lui con quell’altra, da lì in avanti. Sarebbe stato un modo memorabile per spiegare al pubblico un aspetto della vicenda (secondo Solera) che viene normalmente ignorato e che soprattutto i registi hanno ignorato: una chiarissima allegoria dell’intreccio politica-religione, una delle problematiche capitali di tutta la storia europea dal medioevo ai giorni nostri…

Criticabili poi alcuni dettagli della messinscena. Mi limito a citarne solamente uno per tutti: mostrare scene cruente di battaglia contraddice spirito e lettera del libretto e della musica, nei quali esse vengono relegate a pochi accenni fatti da Giovanna alla fine del primo atto, o dagli inglesi all’inizio del secondo, o ancora da Giacomo con la sua cronaca nel finale. Tuttavia, quali che fossero le motivazioni (la censura magari, ma più verosimilmente i canoni estetici che il melodramma si auto-imponeva a quei tempi) sta di fatto che Solera-Verdi si guardarono bene dal mettere in mostra la benchè minima violenza o crudeltà. Che qui invece ci vengono propinate a piene mani alla fine del primo atto, compresa la vista di Giovanna che dà il colpo di grazia - calandovi nel petto a due mani e in modo invero orripilante il suo spadone - ad un soldato nemico già atterrato e indifeso.  
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Che dire? Che ancora una volta si sono buttati soldi del contribuente per mettere in piedi un allestimento tanto strampalato quanto pretenzioso. Una regìa di quelle che i soliti con la puzza al naso chiamerebbero museale avrebbe garantito alla produzione un price/performance assai migliore.

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