bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

25 agosto, 2015

Da Rossini a Wagner

 

Chiusosi il ROF il 22, si sta chiudendo anche Bayreuth, un Festival che ha avuto come principale oggetto di interesse il nuovo Tristan della premiata coppia Christian-Kathy, che ha avuto l’ultima replica il 23. E dopo averne ascoltato la prima per radio, l’ormai lontano 25 luglio, torno sull’argomento per esprimere ora qualche considerazione sulla messinscena, essendo disponibile in web (almeno fino ad ora, salvo interventi censori…) la registrazione filmata di una successiva rappresentazione. Pur con tutte le cautele, dovute al fatto che la regìa televisiva – soprattutto con l’uso dello zoom - in qualche modo distorce (in meglio e/o in peggio) ciò che la regìa teatrale propina allo spettatore in sala, è possibile quanto meno trarre dalle immagini registrate alcuni concreti spunti di riflessione.

In generale la critica parla di una Katharina che avrebbe abbandonato, magari complice Thielemann, il furore iconoclasta dei suoi Meistersinger del 2007 per orientarsi verso un approccio magari più vicino a quello di zio Wieland, cercando cioè di approfondire i molteplici significati reconditi del dramma. Ma c’è poi riuscita? A me pare proprio di no, e spiegherò perché.

Le scene sono piuttosto spartane e assai fredde, per non dire glaciali, e le luci danno il loro contributo alla creazione di atmosfere quasi spettrali, e sempre sono funzionali – non sembri un paradosso – ad accentuare l’oscurità, che permane anche in quei rari momenti dove la scena dovrebbe essere – stando al testo - in piena luce (un esempio per tutti: il finale atto I). I costumi sono assai curati e sufficientemente anonimi: moderni, ma seri e non pacchiani, compreso il cappottone di Tristan, peraltro di foggia piuttosto diversa dal solito cliché made-in-DDR

Assolutamente di alto livello l’interpretazione dei componenti del cast, dal punto di vista attoriale: la ripresa televisiva mette benissimo in risalto le grandi qualità di tutti (fino a che punto legate a specifiche indicazioni e prescrizioni della regista o già in loro dotazione, sarebbe peraltro da appurare).

Le diverse personalità dei protagonisti sono messe a fuoco in modo accettabile, se si esclude – ahinoi, e questo è il punto dolente dell’intera messinscena – la figura di Re Marke, sulla quale evidentemente la regista ha deciso, chissà poi perché, di riversare gran parte della sua (residua?) dotazione di idee strampalate e dissacratorie. La cosa ha implicato, per conseguenza diretta, una concezione a dir poco cervellotica dell’intero second’atto e poi del finale del dramma.         
 
Atto I

Il freddo ginepraio di scale e praticabili entro cui si muovono i 4 personaggi (marinaio e cori non si vedono, salvo fugaci apparizioni di addetti all’apertura o chiusura di qualche varco) immagino debba rappresentare il livello di totale incomunicabilità che separa i due protagonisti principali, mentre per gli altri due (Brangäne e Kurwenal) costituisce la barriera alla conoscenza di ciò che avviene nella psiche dei rispettivi padroni. Nelle prime due scene (o quasi) la regista rispetta alla lettera il testo: Isolde manifesta a Brangäne tutta l’insopportabilità della situazione in cui lei si trova, le chiede di Tristan e le ordina di andare da lui per invitarlo a renderle omaggio. Brangäne esegue, riferisce l’ordine di Isolde a Tristan, che risponde tergiversando (ed estraendo dal cappottone il velo nuziale, simbolo certamente azzeccato in quel preciso frangente e nelle scene successive: lui sta recando Isolde in sposa al suo Re).

Ma adesso abbiamo una prima chiara deviazione rispetto al testo originale: mentre Kurwenal inizia la sua impertinente descrizione degli avvenimenti che portarono alla morte di Morold, con tanto di testa mozzata e rispedita in Irlanda, ecco che Isolde, invece di ascoltare da lontano, dal suo alloggio a prua, raggiunge i tre cercando, pienamente corrisposta da Tristan, di congiungersi con lui, impeditane dallo scudiero. E già qui siamo al gratuito, poiché se è (o sarà…) evidente che i due protagonisti si amano fin dallo sguardo, è altrettanto chiaro dal testo che nessuno dei due si vuol ancora esporre esplicitamente verso l’altro.

E il peggio arriva quando, finita l’esternazione di Kurwenal, lui, Isolde e Brangäne vengono fatti letteralmente sprofondare di due piani rispetto a Tristan (che cerca invano, contrariamente al libretto, di raggiungerli): per cui tutta la successiva scena terza si svolgerà, anziché fra Isolde e l’ancella, di fatto fra Isolde e Kurwenal(!) Il quale, invece di irrompere all’inizio della quarta scena, viene quindi messo a parte dei particolarissimi rapporti intercorsi fra il suo capo e la principessa d’Irlanda, fatti dei quali lui dovrebbe rimanere totalmente all’oscuro addirittura fino al terzo atto! L’unico sottoprodotto plausibile di questa strampalata interpretazione di Catherina è il pugnale (ma nemmeno, pare un innocuo coltello da cucina, che però qui simbolizza beceramente la spada) che Isolde strappa a Kurwenal e che le serve per mimare su di lui il racconto del suo incontro (e conseguente innamoramento) con Tristan.

Altra chiara e gratuita – e fuorviante – scelta della regista è di far udire da Tristan, appostato su un praticabile proprio al di sopra di Isolde, l’esternazione della donna, che (in realtà) dovrebbe confidare solo all’ancella di non poter sopportare la prospettiva di dover vivere vicino all’eroe che lei ama senza poterne godere. Sì, perché Tristan deve solo immaginare (e sperare) che lei lo ami, non certo averne la certezza dalle di lei parole!

A questo punto bisogna pur parlare dei filtri, anzi del filtro! OK, d’accordo, sappiamo bene che questa storia dei filtri è tutta una finzione e che il filtro d’amore in realtà è acqua fresca, o comunque un qualunque intruglio non venefico, che insomma deve solo servire a non far schiattare gli innamorati dopo che si sono, bevendolo e credendolo di morte, dichiarati implicitamente il loro amore. Però, accipicchia, un minimo di realismo e di logica andrebbe conservato, altrimenti tutto diventa una gratuita pagliacciata.

Come l’ha immaginata Wagner tutta questa storia? Ecco: in uno scrigno (d’oro!) sono conservati alcuni recipienti contenenti i filtri (uno contro le malattie, un altro contro i veleni e un terzo, afrodisiaco). Ma Isolde indica all’ancella (che inorridisce) una quarta ampolla, da lei accuratamente contrassegnata: il filtro di morte, che lei intende bere con Tristan, che sta per arrivare. Al momento opportuno, quando Isolde ordinerà a Brangäne di versare il liquido nella coppa d’oro dove brindare con Tristan, l’ancella (che si dovrà solo vedere, poiché non canterà in quel frangente) invece del filtro di morte, verserà quello d’amore (o di… non morte, ecco). Tutto perfettamente realistico quindi, perché logico e plausibile.

Invece la Kathy cosa ci propina? Tutti i filtri sono di ugual colore rosaceo e contenuti in fiale perfettamente uguali (!?); Isolde estrae dal suo abito quello di morte, perfettamente uguale agli altri (evidentemente senza alcun contrassegno particolare); Brangäne glielo strappa di mano e le restituisce quello d’amore (tanto son tutti uguali!) Di conseguenza, al momento del brindisi è Isolde e non l’ancella (che è del tutto assente) ad estrarre dal petto il filtro, senza accorgersi però che non è quello giusto, che Brangäne le ha scambiato sotto il naso poco prima: insomma, una pantomima francamente risibile. E ancora non è tutto, come vediamo tra poco.

La quarta scena si dovrebbe aprire con l’irruzione di Kurwenal per annunciare alle donne che il porto è in vista. Qui invece lo scudiero, come si è visto, era già lì da un pezzo… In compenso, al posto di Kurwenal, che invano cerca di spostare un paio di scale per salire, è Isolde ad essere issata repentinamente all’altezza di Tristan, per il loro fatale incontro (!?) Qui c’è il drammatico scontro fra Isolde e l’ancella (che sta al piano di sotto!) a proposito del filtro, che Isolde ha con sé, ed è già quello… scambiato prima da Brangäne!: ma che senso ha allora la disperazione dell’ancella, quando lei sa benissimo che la fiala in possesso di Isolde, e che verrà usata per il brindisi, non è quella di morte? (Chiedere lumi a Kathy, please.)

La quinta scena si apre con l’entrata di Tristan, che Isolde accoglie con un… appassionato abbraccio (!?!) Ed anche in seguito lo avvicina con moine del tutto gratuite. Invece è perfetta la resa del momento in cui Tristan, dal voi, passa al tu, mettendo in mano ad Isolde la spada (ehm… il coltellino) con cui vendicare Morold. Lei invece è piuttosto prosaica, facendo scendere la punta del coltello lungo il corpo di lui, fino ad altezze… vergognose, ecco.

Ovviamente, date le premesse, Brangäne è del tutto assente (non solo col canto) dalla scena del brindisi, mentre in compenso lì c’è un nuovo appassionato abbraccio (eddai!) fra i due protagonisti. Scena francamente poco efficace, con il contenuto della fiala che viene versato sulle mani unite dei due, così come fiacca è la scena del successivo… risveglio: i due paiono più inebetiti che in suprema esaltazione, ecco. E l’abbraccio che finalmente li unisce finisce per dire poco (della serie al lupo, al lupo!) essendo ormai il terzo, a quel punto.

Il finale è dignitoso, sempre con pochissima luce, ed ha comunque il pregio di non far invadere la scena da masse disturbanti e, come è peggio (vedi Chéreau) dal farvi entrare anzitempo Re Marke. 

Tutto sommato un atto caratterizzato da una regìa non esecrabile, anche se piuttosto (diciamo così) confusionaria, in particolare per ciò che attiene agli spostamenti fisici dei 4 personaggi, che bisnonno Wagner - orsono 150 anni - aveva previsto con assoluta meticolosità, in funzione dei rispettivi stati d’animo, e che la pronipotina ha bellamente reinventato senza particolare costrutto.

Atto II

Invece di perdere un sacco di tempo a descriverlo passo per passo, facciamo prima proponendo un test di drammaturgia, mostrando esclusivamente le immagini (audio spento) di quest’atto senza preannunciare il titolo dell’opera, e chiedendo agli esaminandi di descrivere sommariamente l’azione che hanno visto in scena. Ecco, la risposta quasi unanime sarebbe pressappoco di questo tenore:

Un boss mafioso vuole liberarsi di un capo-banda rivale, così si serve di una delle sue zoccole, che fa opportunamente imbottire di droga, per adescare il rivale in uno dei suoi locali, osservandone inosservato dall’alto ogni minima mossa. A rapporto consumato, compresi riti sado-maso, lo sorprende in flagrante ed ha quindi il facile pretesto per farlo mandare al creatore dal suo guardaspalle. Gli dedica anche un accorato quanto ipocrita epitaffio, prima di andarsene trascinando via la povera zoccola.     

Capito com’è il second’atto di Tristan, versione riveduta e corretta dalla Kathy?

Atto III

Qui abbiamo un sano minestrone dei primi due atti. Il giardino del castello di Kareol, dove Tristan giace moribondo sotto un gran tiglio, si è trasformato in un luogo di veglia funebre, con tanto di lumini disposti intorno alla quasi-salma. Oltre a Kurwenal e al pastorello (che peraltro dovrebbe soltanto affacciarsi al muro di cinta) vegliano Tristan altri due individui non meglio precisati (inutile dire che sono un’invenzione della regista, anzi una scopiazzatura da Chéreau, che ce ne aveva messi una mezza dozzina almeno…)

Tristan è stato accoltellato alla schiena dal sicario del boss Marke (e non infilzato nel petto, come da libretto) però giace tranquillamente… supino (come da libretto! un modo come un altro per far rimarginare la ferita). Poi addirittura si alza e si mette a girare qua e là come nulla fosse: evidentemente tutto il second’atto doveva essere stato solo un brutto sogno, provocato forse dall’intruglio bevuto a bordo nell’atto iniziale.

Nei suoi vaneggiamenti, lui vede ovviamente Isolde, che gli appare diverse volte, incastonata in piramidi trasparenti (e questa magari è un’idea sensata); poi si accascia, questa volta bocconi, perché la ferita deve davvero fargli molto male, ecco. Ma ben presto si rimette arzillamente in piedi, Isolde sta arrivando e lui ne vede una, due, tre e addirittura quattro!

Finalmente muore e viene ricoperto da un telo, sul quale Kurwenal depone una croce e i due clandestini collocano due calle. Ma Isolde deve provare a riportarlo in vita, così lo scopre, però per poco, chè qualcuno ristende il velo e depone croce e fiori sulla salma. Finito? Beh, ancora manca l’arrivo del boss Marke e del resto dei protagonisti, che compaiono di botto in scena, proprio teletrasportati. Il parapiglia che ne segue, con ammazzamenti di Melot e Kurwenal, sembra un gioco delle belle statuine. Alla domanda di Marke che chiede di Tristan, il morente Kurwenal risponde (come da libretto): sta qui, accanto a me. Peccato che accanto a lui giaccia… Melot, evabbè.

Marke si mette al collo una fascia (sarà quella di sindaco o una stola di prete?) per fare l’elogio funebre al rivale che lui aveva fatto accoltellare nel second’atto; Isolde canta il suo Liebestod sulla salma, accanto a Brangäne, con Marke impietrito ad osservare i tre (miracolo, proprio come da libretto!) Ma, precisamente quando il corno inglese intona per l’ultima volta il motivo del filtro (SOL#-LA-LA#-SI) ecco il boss che si riprende la sua zoccola e se la porta via.

Il bello è che a Bayreuth – alla prima - hanno buato Thielemann e la Herlitzius, mica la tenutaria del baraccone! Vengono i brividi a pensare come sarebbe (o sarà…) un suo Parsifal.

23 agosto, 2015

Il ROF-36: Stabat Mater + spizzichi di Tell

 

Il ROF-36 ha chiuso i battenti, in un Teatro Rossini ancora gremito, con l’ormai tradizionale concerto, diffuso anche in streaming, oltre che in Piazza del Popolo a Pesaro. Pezzo forte lo Stabat Mater, al suo ritorno dal 2010, protagonisti gli stessi complessi bolognesi di allora: orchestra, coro e… futuro direttore musicale. E proprio Michele Mariotti, prima di attaccare lo Stabat, ha voluto rievocare quella sera domenicale del 22 agosto di 5 anni fa per ricordare una persona che allora fu protagonista e che da poche settimane non è più fra noi: Paolo Vero, a quel tempo Maestro del Coro felsineo. Di quel concerto conservo anch’io un bel ricordo, immortalato in rete da questa cronaca.

Se la Messa di Gloria (1820 a Napoli) aveva entusiasmato molti ma anche fatto storcere il naso a più d’uno per l’eccessiva invadenza di temi e atmosfere teatrali in una composizione sacra, lo Stabat (1842 a Parigi) ricevette un’accoglienza trionfale e poche furono le voci di critica all’eccessiva secolarizzazione della musica sacra del genio pesarese (una di queste voci fu quella di Wagner, che più tardi però ebbe modo di ricredersi). Sul programma di sala Ilaria Narici (attuale Direttrice dell’Edizione critica della Fondazione Rossini) riassume i termini generali della problematica legata ai rapporti fra musica sacra e profana (teatrale) come si era sviluppata tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, in coincidenza con il tramonto degli ideali illuministi – che avevano regolato in modo razionale tali rapporti, a partire dalla rigida separazione fra i rispettivi stili e forme - e l’insorgere prepotente del romanticismo, che quei rapporti e quelle regole metteva profondamente in discussione. Così conclude Narici: Rossini non scrive una musica sacra astratta e romanticamente idealizzata, ma fa della contaminazione degli stili la forza e l’attualità dell’opera e in questo senso, contrariamente alle interpretazioni che vedono l’opera rossiniana guidata da un’estetica conservatrice, ne sancisce l’assoluta modernità. E credo che il concetto si applichi anche a Verdi, al cui Requiem (nato in origine proprio come omaggio alla memoria del Maestro pesarese) verranno mosse critiche di eccessiva melodrammatizzazione, critiche che francamente lasciano oggi il tempo che trovano.

È opinione diffusa che lo Stabat sia una specie di evoluzione dell’estetica musicale rossiniana già manifestatasi nel Tell. E non a caso l’apertura del concerto finale del ROF-36 è stata affidata a note dell’ultima, grande opera di Rossini. Così abbiamo potuto ascoltare alcuni dei brani corali-danzati, estrapolati dall’edizione critica dell’opera, curata a suo tempo da una delle principali contributrici della Rossini-renaissance: M.Elizabeth C. Bartlet.  

Dapprima tre brani dall’atto I e precisamente:

- il N°4, Choeur dansé (Choeur de Suisses, Hyménée);
- il N°5, Pas de six;
- il N°5b, Pas de deux.

Poi, dall’atto III:
- il N°15, Pas de trois et choeur tyrolien (Petit choeur de Suisses; Choeur de Suisses et soldats, Petit choeur de Suisses, Toi que l’oiseau, Dans nos campagnes);
- il N°16, Pas de soldats, che ha chiuso in modo a dir poco travolgente la prima parte della serata, permettendo ad orchestra e coro – che il Tell hanno avuto modo di interpretare di recente qui a Pesaro, poi a Torino e Bologna - di… scaldare i muscoli.

Quindi ecco lo Stabat, che non ha tradito le aspettative: a partire da Mariotti, che ha mantenuto un sapiente equilibrio di dinamiche, evidenziando tutti i dettagli della complessa partitura (rispetto al 2010 ha cambiato il layout dell’orchestra, disponendolo alla alto-tedesca, bassi a sinistra, celli al centro e violini secondi al proscenio). Per proseguire con il coro di Andrea Faidutti, sempre compatto e preciso, cui ancora una volta è stato affidato – scelta sempre discutibile peraltro, avendo i suoi pro-e-contro rispetto all’impiego del solo quartetto solistico - il Quando corpus morietur, a cappella, esposto con grande… religiosità; coro che ha poi chiuso in bellezza con la fuga conclusiva, dove Rossini, a 20 anni di distanza dalla Messa di Gloria, ha mostrato alla grande di non aver più bisogno del supporto contrappuntistico di un Pietro Raimondi…

Bene anche i quattro solisti, fra cui si è ben distinto René Barbera, e non solo per il famoso e squillante REb sovracuto del Cuius animam. Ma anche gli altri hanno ben meritato, a partire da Nicola Ulivieri, impeccabile nel suo Pro peccatis e nel successivo Eja mater; ad Anna Goryachova, cresciuta dopo un avvio non proprio perfetto fino ad un convincente Fac ut portem; e per finire con Yolanda Auyanet, la quale oltre che per una voce ben impostata in tutti i registri (inclusi gli acuti, a giudicare dai due DO dell’Inflammatus) si è fatta notare (e come!) per l’abbigliamento consono, più che ad una cerimonia religiosa, all’incoronazione di… Poppea (stra-smile!)             

E con questa nota di colore, auguro (a me stesso, innanzitutto): arrivederci al ROF-37, se (…) vorrà.


21 agosto, 2015

Il ROF-36 live (3): La Gazzetta

 

Ieri sera, in un Teatro Rossini piacevolmente gremito, ultima recita al ROF-36 della nuova produzione de La Gazzetta, che ha chiuso così la sua terza presenza al Festival, la prima in forma finalmente completa. La novità del quintetto dell’atto primo (Già nel capo un giramento) è ovviamente al centro dell’attenzione, tanto da occupare gran parte dei saggi pubblicati sul programma di sala a firma di due autentiche autorità in merito: nientemeno che gli editori critici della partitura, Philip Gossett e Fabrizio Scipioni.

 

Gossett – tornato di persona sui luoghi dei suoi vecchi amori e del suo… divorzio - ricostruisce, per così dire, i retroscena musicologici relativi al quintetto: nella sua prima edizione del 2000 (rappresentata al ROF nel 2001, poi ripresa nel 2005, con Dario FO) Gossett stesso aveva musicato il recitativo della scena VI (Alberto che dichiara il suo amore a Doralice, creduta figlia di Pomponio) e poi il testo del quintetto (scena VIII) era stato declamato sul sottofondo al fortepiano della Danza dalle Soirées musicales. Una soluzione assai più complessa e ardita era stata poi proposta in Germania da Stefano Piana, che aveva presentato il quintetto con musiche derivate per induzione dal sestetto de La Cenerentola (opera successiva e oggetto di importanti imprestiti da La Gazzetta, a partire dall’intera Sinfonia) e dal quartetto de La scala di seta, oltre che dal finale primo del Barbiere, per il famoso Mi par d’esser con la testa.  

 

Gossett ammette di aver molto apprezzato l’acume di Piana nel predisporre la sua soluzione alla mancanza della musica del quintetto, soluzione che è poi stata in gran parte invalidata dal recente ritrovamento dell’originale di Rossini. Che ha rivelato come la prima sezione del quintetto medesimo sia musica del tutto nuova (c’è in effetti una premonizione a La Cenerentola, ma non al sestetto, bensì all’introduzione); che la seconda derivi effettivamente da La scala di seta, ma con importanti modifiche, specie nelle modulazioni di tonalità; e che la terza riprenda sì il sestetto del Barbiere, ma anche qui con importanti varianti (non c’è la sezione in MIb e nel finale il DO maggiore lascia fugacemente spazio ad un LAb maggiore).   


Da parte sua Scipioni, dopo aver ricostruito le vicende che portarono alla creazione del libretto (da Goldoni) e alla rappresentazione dell’Opera, ci ragguaglia con minuziosi dettagli riguardo ai numerosi imprestiti sparsi nella partitura, ma concentrati prevalentemente nel primo atto. Oltre a quelli già citati da Gossett, veniamo a sapere che già nell’Introduzione quadripartita troviamo il coro (Chi cerca il piacere) che proviene da Torvaldo e Dorliska; poi, dopo l’aria di Alberto, nuova, il recitativo accompagnato (Oh sior Alberto) da L’equivoco stravagante e da La scala di seta; infine il terzetto con coro (Portala qua) ancora da Torvaldo. La cavatina di Lisetta (Presto, dico) proviene, ma diversamente orchestrata, dall’aria sostitutiva di Fiorilla (Presto amiche) del Turco in Italia. Il finale primo, strutturato in quattro sezioni, presenta nella terza (Giusto ciel) un imprestito dal Torvaldo. Altri imprestiti più o meno corposi vengono da La pietra del paragone, La cambiale di matrimonio e Sigismondo.

La presenza del quintetto appare davvero come una necessità (musicale innanzitutto, ma anche drammaturgica e spettacolare) tanto che si fatica ormai ad immaginare come potesse configurarsi una rappresentazione che ne fosse priva: e questo credo proprio spieghi la lunghissima assenza dalle scene di un’Opera che aveva un primo atto ridotto musicalmente, drammaturgicamente e spettacolarmente ad un corpo deforme perché mutilato. Restano così ancor più inspiegabili le ragioni per cui Rossini in persona lo volle rappresentato in tal forma.
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Ieri l’ascolto (e visione) dal vivo mi ha confermato la buona impressione della prima ascoltata in radio, e anche il pubblico ha mostrato di apprezzare, applaudendo a scena aperta dopo ciascun numero, e tributando alla fine un meritato trionfo per tutti.

E su tutti ha spiccato lo Storione del volga di Nicola Alaimo, per possanza di voce (oltre che per… stazza fisica!): qualche eccesso gli si può perdonare, portandolo a credito della componente attoriale della sua prestazione.

Benissimo l’esordiente (al ROF, sia chiaro) Vito Priante, un Filippo davvero convincente, bella voce tornita e chiara in tutta l’estensione, da baritono rossiniano. Buone notizie anche per Maxim Mironov, che si è confermato tenor-ino (nella voce, -one nel fisico da cestista) di qualità, presentandosi subito sicuro nell’esordio di Ho girato il mondo intero, e poi guadagnandosi un’ovazione alla fine dell’aria del second’atto (O lusinghiero amor).
Completavano la sezione-androceo del cast Andrea Vincenzo Bonsignore, che si è onorevolmente accollato la parte non proibitiva di Traversen, e Dario Shikhmiri, un onesto Anselmo.

Nel campo femminile, discreta prestazione della Lisetta di Hasmik Torosyan (per la verità mi aveva meglio impressionato alla radio) che è dotata di voce ragguardevole che però, soprattutto salendo agli acuti, tende un filino a stimbrarsi, virando al… metallizzato. Discreta la sua tecnica, come testimoniato dai virtuosismi richiesti dalla parte. Abbastanza sicura Raffaella Lupinacci, che ha creato un’onorevole Doralice, manifestatasi in pieno nell’aria (spuria) Ah, se spiegar potessi. Un gradino sotto (per me, s’intende) la Madama di Josè Maria Lo Monaco, voce dal timbro sgradevole e intonazione non sempre appropriata. Le tre cantanti (così come Bonsignore e Shikhmiri) vengono da recenti esperienze dell’Accademia di Zedda (che sedeva in un palco a ricevere i loro omaggi…) il che testimonia della validità di tale iniziativa, ma anche di una certa fretta nel promuovere le voci al cartellone principale del ROF.

Il coro maschile di Andrea Faidutti ha meritoriamente dato il suo contributo al successo della serata. Enrique Mazzola ha confermato quanto di buono udito in radio: direzione attenta ai particolari e alle sfumature (qui l’Orchestra bolognese ha confermato la sua buona forma) e precisa concertazione delle voci; insomma, per lui un ritorno proficuo al ROF dopo le presenze marginali (ma significative) risalenti all’ultima fine-secolo (!)
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L’allestimento di Marco Carniti (applauditissimo anche lui alle uscite finali) mi è parso complessivamente indovinato. Le scene di Manuela Gasperoni assai spartane, racchiuse da lunghi pannelli a mo’ di tendaggio semitrasparente, con tavoli mobili e poco più (così immagino abbiano contribuito a non far aumentare troppo il rapporto debito/PIL del Festival) hanno comunque creato spazi e occasioni per i movimenti di singoli e masse. Simpatici i costumi di Maria Filippi ed efficaci le luci di Fabio Rossi. In generale mi è parso di rilevare una specie di crescendo (rossiniano) nella tinta complessiva della scena: si è passati da mille sfumature di grigio (con poco bianco e nero) del primo atto ad una progressiva accentuazione cromatica col progredire della rappresentazione.

Da segnalare in particolare la sceneggiatura del terzetto maschile del second’atto (il duello) che ha impegnato i protagonisti in esilaranti gag, con Alaimo nelle vesti dell’elefante ballerino, culminate in uno sfrenato Cantiamo, balliamo, che ha strappato un uragano di applausi divertiti.

Non si può a questo punto non parlare del Tommasino di Ernesto Lama. Come la gazza di Michieletto e il ragazzino-minatore di Vick, è stato il prezzemolo sparso a piene mani sulla rappresentazione. Lui sembrava un Pietro DeVico di buona memoria, una macchietta straordinaria cui Carniti ha affidato il compito di vivacizzare ogni scena, mettendogli anche in bocca qualche battuta non precisamente scritta da Palomba. E affidandogli anche qualche sottile (e tutto sommato innocente) messaggio socio-politico (Vick ha fatto scuola) culminato nel cartello esibito alla fine: con la cultura si mangia?  

Ecco, facendo proprio questo drammatico interrogativo, chiudo il mio personale diario del ROF-36 operistico. Mi resta però ancora un’ultima stazione di via-crucis (smile!): eh sì, quella dove… Stabat Mater.

19 agosto, 2015

Il ROF-36 live (2): Messa e Inganno

 

Ieri doppia razione di ROF, con spola fra Adriatic Arena e Teatro Rossini, in una Pesaro ritornata, ma pare solo momentaneamente, quasi estiva.


Nel pomeriggio il palazzone-vongola era un barile di… sardine (evidentemente basta la sigla JDF per fare il pieno!) per un programma sacro-profano incentrato, nella prima parte, sulla rediviva Messa di Gloria e nella seconda su due composizioni giovanili per soli e coro. Avendo Roberto Abbado dovuto rinunciare, essendosi rotto… (un tendine d’achille) è toccato a Donato Renzetti (già titolare nella Gazza) guidare la Filarmonica Rossini (di cui è fresco Direttore principale) e il Coro di Bologna di Andrea Faidutti, che hanno accompagnato il quintetto di voci soliste: tenori Juan Diego Florez e Dempsey Rivera, soprano Jessica Pratt, contralto Viktoria Yarovaya e basso Mirco Palazzi.

Dapprima, quindi, la Messa corta, che vide la luce un lontano venerdi 24 marzo del 1820 (festa della Madonna dei Dolori) nella Chiesa di SanFerdinando a Napoli. Così ne ricordò l’esecuzione un rossiniano sfegatato, uno che oggi non si perderebbe un solo minuto dei ROF (da: La vie de Rossini di Stendhal, capitolo XXXVII, ultimo capoverso):

Avemmo a Napoli, nel 1819 credo, una messa di Rossini, che impiegò tre giorni a dare l'apparenza di canti di chiesa ai suoi motivi più belli. Fu uno spettacolo delizioso; noi vedemmo passare successivamente sotto i nostri occhi, e con una forma un po' differente, che dava del frizzante ai riconoscimenti, tutte le arie sublimi del grande compositore. Un prete gridò serioso: Rossini, se tu bussi alla porta del paradiso con questa messa, malgrado tutti i tuoi peccati, san Pietro non potrà rifiutarsi d'aprirti!

C’è chi mette seriamente in dubbio l’attendibilità di questa testimonianza del peripatetico Marie-Henry Beyle. E c’è chi non digerì per nulla la Messa, come un musicista crucco protestante (!) a nome Carl Borromäus von Miltitz, che deplorò il suono dell’organo durante l’intera esecuzione, con l’orchestra che suonava contemporaneamente e Rossini che chiedeva dei fortissimo ora ad uno ora all’altro degli strumentisti, con conseguente immaginabile dissacrazione della santità del luogo. (Insomma, un… inganno di messa!)

In effetti dobbiamo ammettere che più che una Messa par di ascoltare un melodramma, e qua e là compaiono motivi che richiamano opere precedenti. Sergio Ragni, sul programma di sala, ci ricorda dapprima un imprestito da Bianca e Falliero nel Laudamus; poi nel Domine Deus una chiara scopiazzatura, persino nella tonalità di MIb, del mirabile motivo di Se tu m’ami, o mia regina (Aureliano, scena seconda). E infine, proprio in apertura del Gloria, il tema che tornerà 6 anni più tardi nel parigino Siège de Corinthe (sinfonia e finale atto II): tema che non è nemmeno rossiniano in origine essendo mutuato da Atalia di Giovanni Simone Mayr, che forse lo aveva a sua volta ripreso da un Salmo di Benedetto Marcello (della serie: le combinazioni dei 12 suoni della nostra civiltà non sono infinite!) Di più: il finale fugato pare proprio essere stato composto dallo specialista in contrappunto a nome Pietro Raimondi, cui Rossini chiese aiuto per la bisogna.

JDF ha subito messo tutti in apprensione: finito di cantare il Gloria, proprio mentre Jessica Pratt si alzava per il Laudamus, lui abbandonava il palco! Fortunatamente per rientrarvi giusto in tempo per il suo successivo Gratias agimus. Dalla sua cera, a dir la verità, sembrava uno cui sono rimasti sullo stomaco gli spaghetti allo scoglio, ecco. Come abbia potuto continuare a cantare all’altezza della sua fama è per me un miracolo. A lui e alla Jessica si è aggiunto su un gran livello Mirco Palazzi, mentre un gradino sotto è rimasta la Yarovaya. Senza voto Rivera, che ha una parte invero minuscola, di sola seconda voce del tenore principale nel Christe. Discreta la Filarmonica Rossini e possente il coro misto bolognese di Faidutti. In fin dei conti, un’esecuzione di tutto rispetto.
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Dopo la Messa del Rossini maturo, ecco due opere del Rossini poco più che ragazzo. Un Rossini fantastico, anche se ancora piuttosto acerbo, come dimostra l’enfasi sparsa a piene mani sulle partiture, ricche di dinamiche spinte all’estremo (è un po’ come il primo Verdi della famosa vanga!)

La cantata Il pianto d'Armonia sulla morte d'Orfeo (per tenore, coro maschile e orchestra, testo del gesuita Girolamo Ruggia) è del 1808 (di fatto una prova di Liceo, eseguita giovedi 11 agosto di quell’anno, a Bologna).

Subito dalla Sinfonia si avverte un’ambientazione che fa pensare a Cherubini o a Gluck, o anche a Haydn, con l’introduzione lenta (DO minore e sesta napoletana) e poi con l’esposizione di un motivo serrato e protervo, che percorre in discesa e risalita l’accordo perfetto di DO minore, e si sviluppa poi nella relativa MIb e sulla sua dominante SIb. Segue un temino nell’oboe in MIb. Poi il tutto ripetuto in forma variata e con modulazione a SOL minore e chiusura in diminuendo che anticipa (come ci ricorda ancora Sergio Ragni) il passaggio che nel Barbiere chiude il temporale.

Il SOL torna dominante del DO maggiore sul quale entra il coro con una prima quartina (Quale i campi rodopei) ed una seconda (Perché i rai discioglie in pianto) sulla dominante SOL, da cui si torna a casa sul DO.

Qui entra il solista (Armonia) con un mirabile recitativo accompagnato (Sparse il lacero crine) in FA minore, poi modulante a maggiore e quindi alla sottodominante SIb. La conclusione riporta la tonalità al DO minore per introdurre l’aria (Dalle spietate furie) che vira subito alla relativa MIb maggiore, con temporaneo passaggio sulla dominante SIb.

Segue un nuovo recitativo accompagnato (Ma tu che desti già sì dolce suono) introdotto da uno splendido assolo del violoncello, passato bruscamente a SOL maggiore, sulla quale tonalità si muove il languido canto del solista. Poi si modula alla sottodominante DO, con un nuovo intervento solistico del violoncello prima della chiusa della voce.

Infine l’aria con coro in DO maggiore introdotta da un romantico e virtuosistico assolo del corno (o come ieri, del più facile clarinetto). Dopo la prima quartina, ecco la seconda (Ed Armonia) nella dominante SOL, poi si torna a DO, il tempo si agita e il corno (non ieri…) esplode in un fantastico virtuosismo mentre entra il coro (Finchè frondi e fior del Rodope) subito seguito dal solista (Finchè in pregio l’arti armoniche) che per gli ultimi due versi della sua quartina (Ogni cor pietoso, e tenero) modula a LAb maggiore, prima del trionfale ritorno a DO.

Ecco, per essere opera di un 16enne, non c’è davvero male (sì, Rossini non fu un bambino prodigio come il suo idolo Mozart, ma insomma…)  

Qui un’interpretazione del prossimo Direttore artistico del ROF, Ernesto Palacio (1990 a Bratislava).

Dopo lo spavento nella Messa, JDF (cui la Pratt ha lasciato l’onore dell’ultima parola - inversione dell’ordine delle cantate rispetto al programma) non ha tradito le aspettative delle falangi di suoi fan arrivati da ogni dove.
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Subito prima, La morte di Didone, scena lirica per soprano con cori maschili (testo dalla Didone abbandonata di Metastasio) che è del 1810 (stessa dedicataria del Demetrio, Ester Mombelli) anche se fu eseguita parecchi anni dopo (sabato 2 maggio 1818, Venezia).

Qui il birichino (che rima con Gioachino…) Rossini ha già imparato alla perfezione il trucco degli auto-imprestiti, così l’introduzione alla scena è presa quasi di peso dalla Sinfonia del Pianto

Una possente scarica del timpano introduce il coro che canta Misera, sventurata! Didone abbandonata! riprendendo di fatto l’atmosfera di DO minore della sinfonia, da cui mutua anche il successivo temino in MIb maggiore, sui versi L’amante tuo spietato alfin se ne partì, prima di tornare al DO minore per ripetere la quartina.

Un’altra raffica del timpano introduce il recitativo accompagnato di Didone (Tutto è orror, tutto è morte) dove torna il tema principale della sinfonia (Infido, sconoscente!) Il recitativo prosegue con modulazioni a SIb e persino a RE maggiore (!) prima del ritorno al MIb sul quale la protagonista canta la sua prima aria: Se dal ciel pietà non trovo, introdotta e poi accompagnata dall’accorato suono del corno inglese e dalla cadenza dei violini, uno stilema in 3/4 che ritroveremo spesso nei lavori di Rossini. Il coro interviene a contrappuntare il canto del soprano il quale, dopo un concitato crescendo supportato da un ostinato tonica-dominante, va a toccare (opzionalmente, cosa che la Jessica peraltro non ha fatto) anche il MIb sovracuto e poi chiude in bellezza sulle parole Tradita dall’amor!

Ma è una falsa chiusura, chè la scena riprende, con il coro che invita Didone a fuggire (Fuggi, Regina, fuggi!) su un concitato DO maggiore. Segue un nuovo recitativo accompagnato di Didone (Ingiustissimi dei!) che si muove dal DO al SOL, al RE e chiude sul MI, dominante del LA minore su cui si apre l’aria conclusiva (Per tutto l’orrore) dove la tonalità vira al DO (La smania, il furore). Abbiamo ora la ripetizione (tutta in LA minore) degli stessi versi.

Quindi riecco il coro (Più scampo non ci resta) che ha modulato a FA maggiore, sulla quale tonalità Didone riprende il suo canto (Ch’io ceda ad un tiranno?) contrappuntata dal coro (Di te, di noi pietade). L’ultima esternazione di Didone (Enea, l’ingrato) resta sul FA fino al ritorno del canonico DO (Precipiti Cartago) sul quale il soprano sale fino ad un ultimo sovracuto (Il cenere di lei) prima della cadenza orchestrale.

Ecco come l’ha interpretata nel 2010 un’extracomunitaria dell’est che qui a Pesaro si è direttamente… accasata, non proprio come badante (smile!) ma assumendo il difficile ruolo di nuora del sovrintendente del ROF.

Ieri l’imponente Jessica ha offerto una prova buona ma non proprio eccellente, mostrando difficoltà a farsi udire nelle note gravi; comunque per lei grandi applausi e ripetute chiamate.
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Il tempo per una piadina (!) e poi trasferimento al Teatro Rossini (non certo affollato come l’arena) per L’Inganno felice, per la quale farsa il ROF ripropone dopo 21 anni l’allestimento di Graham Vick.

 

Spettacolo assai curato nei dettagli (Vick era già qualcuno nel 1994!) e, come è caratteristica somatica del regista inglese, arricchito da (qui pochi e per fortuna innocui) tocchi di ideologia socialistoide, del tutto inventati rispetto al soggetto originale di Giuseppe Foppa.


Così una vicenda – ambientata casualmente nei pressi di una miniera - che più personale e privata non potrebbe essere (antefatto: la moglie del Duca invano insidiata dal di lui braccio-destro il quale per vendetta la denuncia al marito ottenendone la condanna) diventa per Vick l’occasione per ricordarci che un tempo anche i bambini venivano mandati a lavorare in miniera: così ne vediamo uno in particolare (con berrettino rosso vivo di ordinanza) che diventa quasi protagonista muto (tipo la gazza di Michieletto…) per movimentare un po’ la scena.

La recitazione è curatissima, anche laddove ci presenta gratuiti comportamenti di alcuni personaggi, tipo: Batone che dà una moneta al ragazzino dal berretto rosso per toglierselo di torno, moneta che però il poveretto è costretto (dal padre, si presume) a restituire. Morale? Mah, forse ci viene ricordato che il proletariato non vuole elemosine, ma parità di diritti… La stessa Nisa dapprima – da povera ex-nobile - insegna premurosamente a leggere e scrivere al minator-ino di cui sopra, ma alla fine, tornata in sella (che rima con Isabella) lo abbandona alle sue umili mansioni di pelar patate; poi impedisce al marito di lasciare un doveroso obolo al suo salvatore-protettore Tarabotto. Della serie: un nobile è socialmente utile ed accettabile solo fin quando è… decaduto!

Evabbè, rispetto alle radicali rivisitazioni di Mosè e di Tell, qui siamo ancora sul sopportabile. Vengo ora a ciò per cui (Vick permettendo) un melomane si reca a teatro.

L’Orchestra è la Sinfonica Rossini (da non confondersi con la Filarmonica, protagonista della prima metà del pomeriggio): orchestra che al ROF è ormai di casa da qualche anno e che si conferma di buon livello in tutti i reparti. Alla sua guida Denis Vlasenko, tornato qui dopo 7 anni (quando diresse un Reims dell’Accademia) che mi è sembrato davvero autorevole e attento a tutti i dettagli della partitura.

Il cast dei 5 personaggi è abbastanza ben assortito Per cavalleria parto da Mariangela Sicilia, tornata al ROF dopo due anni (ebbe parti in Italiana e Donna del Lago nel 2013): voce squillante e ben impostata, ha confermato alle mie orecchie la buona impressione già fatta alla prima radiofonica. Cito su tutto il resto l’aria (che in passato veniva spesso sostituita da altra musica) Al più dolce e caro oggetto, dove c’è fra l’altro una fugace citazione (auto-imprestito) dalla Didone udita nel pomeriggio (Ah, quanto pena un’anima).

Fra i quattro signori che contornano la protagonista i più convincenti sono stati i due bassi: Davide Luciano (già segnalatosi nell’Italiana del 2013) che mi sembra ulteriormente cresciuto e che è stato un Tarabotto poco meno che perfetto, per chiarezza e profondità della voce e sensibilità interpretativa; accanto lui Carlo Lepore, ormai veterano e beniamino del ROF, che ha ben ricoperto il ruolo semi-serio di Batone. Davvero encomiabile – in particolare – il loro duetto (Va taluno mormorando) accolto da un interminabile applauso.

Un filino al di sotto della media il Bertrando di Vassilis Kavayas, apparsomi poco intonato e dall’espressione piuttosto piatta e monotona: anche il pubblico ha avuto per lui solo applausi di stima. Personalmente lo ricordavo meglio dall’Armida dello scorso anno. Giulio Mastrototaro era il cattivone Ormondo: una parte (relativamente) leggera, con un’aria piuttosto breve (Tu mi conosci, e sai) che è stata comunque sostenuta con pieno merito.

In definitiva, una simpatica riproposta che il pubblico ha mostrato di gradire assai, ripagando tutti di applausi e consensi, dopo ciascun numero e alle uscite finali.

(next: La Gazzetta)

17 agosto, 2015

Il ROF-36 live (1): La Gazza ladra

 

Primo mio personale incontro diretto con il ROF-36, La Gazza ladra, arrivata alla terza delle quattro rappresentazioni. Titolo noto a tutto l‘universo, ma solo per via della strepitosa Sinfonia. Al proposito Lodovico Settimo Silvestri, nel suo tomo Della vita e delle opere di Gioachino Rossini, del 1874, ci racconta ciò che il Maestro scrisse in risposta a tale signor De Mirandel, che gli chiedeva consigli sul momento migliore per comporre l’Ouverture di un’opera:

1. Aspettate fino alla sera prima del giorno fissato per la rappresentazione. Nessuna cosa eccita più l'estro, come la necessità, la presenza d'un copista che aspetta il vostro lavoro, e la ressa d'un impresario in angustie che si strappa a ciocche i capelli. A tempo mio, in Italia, tutti gl'impresari erano calvi a trent'anni.
2. Ho composto l'ouverture dell'Otello in una cameretta del palazzo Barbaja, ove il più calvo ed il più feroce dei direttori mi aveva rinchiuso per forza senz'altra cosa che un piatto di maccheroni, e con la minaccia di non poter lasciare la camera, vita durante, finchè non avessi scritta l'ultima nota.
3. Ho scritto l'ouverture della Gazza Ladra il giorno della prima rappresentazione sotto il tetto della scala, dove fui messo in prigione dal direttore, sorvegliato da quattro macchinisti che avevano l'ordine di gettare il mio testo originale dalla finestra, foglio a foglio, ai copisti, i quali l'aspettavano abbasso per trascriverlo. In difetto di carta da musica, avevano ordine di gettare me stesso dalla finestra.
4 Pel Barbiere feci meglio: non composi ouverture, ma ne presi una che destinava ad un'opera semiseria chiamata Elisabetta. Il pubblico fu arcicontento.
5. Ho composto l'ouverture del Conte Ory stando a pesca, coi piedi nell'acqua, in compagnia del signor Aguado, mentre costui parlava di finanze spagnuole.
6. Quella del Guglielmo Tell fu scritta in circostanze presso a poco simili.
7. Quanto al Mosè non ne feci alcuna.

Lo stesso autore ci informa di come venne presa la Sinfonia alla prima della Scala da un musicista giovane ma già… conservatore:

A Milano l'introduzione del tamburro nell'orchestra gli valse un nemico terribile. Era un'allievo di Alessandro Rolla, un violinista della Scala. Questo giovino artista non poteva vedere, senza dare ne li eccessi della più violenta colera, l'istromento ritmico dei reggimenti aggiunto ai nobili organi della sinfonia. Il prodigioso risultato del novatore lo fece andare fuori dei gangheri. La sua colera divenne una specie di furioso delirio. Egli andava per le vie, pei caffè gridando a tutti quelli che volevano ascoltarlo, che bisognava uccidere Rossini affine di salvar l'arte, e che egli s'incaricava di dargli un colpo di stile per finirla coi tamburi, i crescendo, le cabalette ed il resto. L'idea dei tamburi lo faceva soprattutto dare nelle più frenetiche smanie. La voce di questo progetto d'assassinio che il giovine violinista non si faceva scrupolo di manifestare a chiunque incontrasse, giunse fino a Rossini. Il colpevole autore dell'introduzione del tamburo nell'orchestra, trattando con disprezzo ogni timore, volle vedere faccia a faccia il vendicatore di sì gran misfatto ed intrattenersi un momento con lui. Alessandro Rolla fu incaricato di trattare la conferenza. Egli da principio non voleva assumersi la responsabilità.
– Se il mio allievo ti vede, disse Rolla a Rossini, egli ti coprirà d'ingiurie, puoi essere sicuro.
- Io gliele renderò, replicava il maestro, la mia provvista non è ancora esausta. Ma io desidero a qualunque costo, di conferire coll'uomo che vuole pugnalarmi per cagione del tamburo.
Alessandro Rolla non avendo nulla a replicare ad una volontà si recisamente formulata mise finalmente il maestro alla presenza del suo terribile antagonista dopo di avere ammonito assai costui. L'incontro fu dei più curiosi. Il compositore con quella maniera che un accusato dovrebbe presentarsi al suo giudice, spiegò i motivi della sua azione, patrocinò le circostanze attenuanti in suo favore, fece in una parola quanto potè per ottenere una sentenza assolutoria.
– Vi sono si o no soldati nella Gazza Ladra? domanda al suo feroce avversario.
- Non vi sono che gendarmi! rispose questi di cattivo umore.
- Sono essi a piedi od a cavallo? riprese l'incolpato con una dolcezza angelica.
– No, essi sono a piedi, rispose il conservatore.
– Ebbene se sono a piedi essi hanno il tamburo, o il devono avere come tutte le truppe a piedi. Perché dunque volete pugnalarmi per non averli privati? l'impiego del tamburo all'orchestra era voluto dalla verità drammatica. Date al libretto tutti i colpi di stilo che vi piacerà, io non mi oppongo in nessuna maniera: egli è il vero colpevole, ma risparmiate il mio sangue, se desiderate evitare i rimorsi.
E siccome quest'aringa non bastava a far disparire tutta la colera e dissipare tutti i dubbi del suo futuro assassino, Rossini gli promise con una comica solennità che avrebbe mai più adoperato il tamburo nelle sue nuove opere. - E questa promessa fatta, in circostanza cosi buffa, seppe mantenere il compositore. Certamente egli non avrebbe potuto violare senza mancare alle leggi dell'onore. La storia della scena burlesca nella quale Rossini fece cadere il pugnale dalle mani del Ravaillac del purismo musicale, sparsa per tutta Milano, aumentò, se il poteva, il trionfo della Gazza Ladra. Il maestro aveva bene il diritto di prendersi un po' a giuoco gli avversari delle sue felici innovazioni. Egli aveva creato uno dopo l'altro, quattro de' suoi più grandi capolavori ed in un genere tutto affatto diverso. La viva commedia del Barbiere, la possente tragedia shakespiriana dell'Otello, il racconto della Cenerentola, ed il melodramma della Gazza Ladra.
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Evidentemente il rodaggio delle due prime rappresentazioni è servito: personalmente ho avuto l’impressione di un certo miglioramento complessivo della prestazione di tutti, rispetto alla non entusiasmante prova dell’inaugurazione, ascoltata alla radio. Confermo l’apprezzamento per la concertazione di Renzetti, che mi pare abbia colto lo spirito dell’opera, che è – a parte l’introduzione ed il finale – un dramma serioso, se non proprio una tragedia. L’orchestra del Comunale di Bologna lo ha ben assecondato, nell’insieme e nelle parti solistiche.

 

Quanto alle voci, sempre sugli scudi Alex Esposito (cui perdonerei un paio di calate non determinanti) che propone un Fernando davvero autorevole. Anche gli altri due bassi non hanno sfigurato: Mirko Mimica è un più che discreto Podestà, che tende forse a incupire eccessivamente una voce chiara e ben impostata; e Simone Alberghini, un Fabrizio dignitoso.


Nino Machaidze non ha fatto miracoli (che penso siano fuori dalla sua portata) semplicemente mi è parsa meno urlacchiante e vetrosa negli acuti rispetto alla prima: la vociona ce l’ha, ma dovrebbe amministrarla meglio, ecco. Teresa Iervolino ha messo in mostra una voce dal timbro fin troppo scuro, ma proprio per questo abbastanza adatto ad impersonare la severa Lucia. Un filino sotto (a mio avviso) il Pippo di Lena Belkina, la cui voce fatica a passare adeguatamente.

René Barbera (Giannetto) è quello che mi è parso progredire di più rispetto alla prima; il tenorino yankee ha messo in mostra voce squillante, acuti sicuri e buon fraseggio. Lo risentiremo a giorni nello Stabat Mater che chiuderà il Festival. Da tutti gli altri (vedi locandina) prestazioni complessivamente accettabili. Assai bene anche il coro di Andrea Faidutti.

Doverosa citazione per la Gazza – Sandhya Nagaraja – che Damiano Michieletto ha elevato a protagonista dell’opera. E così parliamo della messinscena, che era conosciuta fin dalla sua comparsa nel 2007, quando venne pure premiata (!?) e poi dalla successiva fruibilità in web. Una proposta tutto sommato dignitosa e godibile (non parliamo però di capolavori, please…) che ha il pregio di non raccontarci una storia inventata dal regista al posto di quella scritta dal librettista, ecco.

Sì, perchè l’idea di farci apparire la vicenda come il brutto sogno di una ragazzina che si mette nei panni del volatile (della famigerata serie bracardiana: la donna c’ha ‘n cervello de galina) è tanto gratuita quanto innocua, non inducendo lo spettatore a distrarsi dallo spettacolo (la musica, soprattutto!) per cercar di decifrare il Konzept del regista. Poi la cosa assume qualche aspetto di incoerenza, come il pentimento che la (ra)gazza sembra provare al vedere la frittata che ha combinato (alla povera Ninetta) col furto del cucchiaio, che non le impedisce poi di tornare ladra, innescando però in tal modo il lieto fine per Ninetta e un incubo per sé medesima, trovatasi di fronte il plotone d’esecuzione destinato alla protagonista, dal quale si salva grazie al brusco risveglio (!?)

Per il resto, detto della miracolosa guarigione del Podestà (che nel 2007 – Michele Pertusi - era affetto da chiara zoppìa, ora perfettamente scomparsa) resta da chiedersi la ragione per la quale l’intero secondo atto si debba svolgere in un acquitrino provocato da una pioggia torrenziale che investe la prigione di Ninetta proprio all’inizio dell’atto. Acqua che oltretutto ha fatto proprio da menagramo, a giudicare dai temporali che in questi giorni flagellano la riviera.

Ma insomma, alla fine Rossini non delude mai e il pubblico, per la verità non proprio… oceanico, ha accolto con gran calore questa riproposta pesarese.

(coming soon: Messa e Inganno… o inganno di una messa?)

11 agosto, 2015

Il ROF-36 alla radio (1)

 

La più sconvolgente (!) novità del ROF-36 è costituita dall’avvicendamento di uno dei suoi interpreti fissi: l’inviato di Radio3 Giovanni Vitali che – essendo passato a più importanti incarichi nella sua Firenze e paraggi – ha ceduto il microfono a Nicola Pedone. Il quale si è presentato con una classica gaffe, collocando l’anno di nascita del Festival nel 1985… nemmeno dovesse fare i complimenti ad una bella donna, ecco. Poi, intervistando Michieletto, dopo qualche battuta sulla Gazza, lo ha portato a parlare del suo recente Tell alla ROH, una scena del quale spettacolo è stata accolta da una plateale contestazione. Così il regista ha potuto spiegare a tutti come e perché quella contestazione fosse responsabilità del solito pubblico ignorante, che non è all’altezza di comprendere le vertiginose intuizioni del regista. Il quale ha promesso però di meditare sull’accaduto. Bene così.

 

Sul fronte dei suoni, La Gazza ladra di Donato Renzetti - per quanto si possa giudicare dall’ascolto tecnologico – ha portato alle mie orecchie sensazioni agrodolci, come dire: ha avuto alti e (parecchi) bassi. Fra i primi includerei proprio la concertazione del navigato Direttore e le dignitosa prova del Coro bolognese di Faidutti; come pure le onorevoli prestazioni di Alex Esposito (papà Fernando) e Mirko Mimica (Podestà). La protagonista (Ninetta) Nino Machaidze non si è smentita rispetto a sue passate prestazioni cui ho potuto assistere dal vivo: una certa approssimazione e una voce che sugli acuti pieni fa uno sgradevole effetto carta-vetro. Tutti gli altri accomunati da un’aurea mediocrità.

Di interessante e coinvolgente, manco a dirlo, c’è stata la strabiliante musica del genio pesarese, che è in grado di resistere a qualunque agente chimico cerchi di corromperla.
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12 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (2)

 

Riecco dopo 10 anni La Gazzetta, che si fregia per l’occasione del ritrovato quintetto dell’atto I, che sembra dare nuovo impulso alla diffusione di quest’opera considerata immeritatamente fra le minori di Rossini (anche per via di un libretto proprio scadente) mentre è musicalmente degna di stare a fianco a Barbiere&C nel novero dei migliori prodotti del genio di Pesaro. E la miriade di auto-imprestiti che Rossini si concede, praticamente da tutta la sua produzione precedente, non ne intacca minimamente freschezza ed originalità.

Devo dire che l’ascolto mi ha piacevolmente sorpreso: Mazzola ha subito mostrato di che pasta è fatto con una splendida esecuzione della Sinfonia; poi non ha più perso un colpo. Ma tutto il cast mi è parso all’altezza, a cominciare dalla Lisetta di Hasmik Torosyan, vocina sottile ma ben impostata e adatta al ruolo. Nicola Alaimo è stato un convincente Pomponio, a dispetto di qualche moderata sguaiatezza… partenopea. Anche il tenorino Maxim Mironov (che debuttò al ROF come accademico nel 2001) ha mostrato buone qualità, così come Vito Priante (Filippo). Ma tutti hanno contribuito ad un risultato che – pur detraendo tutte le tare legate all’ascolto artificiale – definirei più che lusinghiero, e nella media superiore a quello della Gazza di ieri.
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13 agosto, 2015

 

Il ROF-36 alla radio (3)

 

L’Inganno felice ha chiuso ieri le prime del cartellone principale. Dignitosa prestazione di tutti, fra i quali eleggo Mariangela Sicilia, non foss’altro che per… cavalleria, essendo lei l’unica femmina fra ben quattro maschi che – per ragioni diverse e magari opposte – se la contendono (smile!)

Anche il corrispondente di Radio3 (Nicola Pedone) ha chiuso in bellezza con un paio di topiche e con un’intervista a patron Mariotti che gli meriterà il premio stregone

Mie impressioni dal vivo… next week.
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Breaking news:

Un annuncio di oggi ci informa che domani 14/8 (ore 11) la recita del Viaggio a Reims (da anni inserito nel cartellone secondario del ROF, per valorizzarne l’Accademia) verrà irradiata in streaming a questo link. Similmente accadrà per lo Stabat Mater del 22 agosto (20:30).