bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

26 luglio, 2015

Da Bayreuth nessuna sorpresa


Il tanto atteso e pubblicizzato debutto della nuova coppia-padrona del festival è stato tutt’altro che un evento epocale. A giudicare dall’ascolto radiofonico, la prestazione musicale mi è parsa di livello appena dignitoso, ad essere indulgenti. Certo, con Wagner e il Tristan non si può non emozionarsi, ci mancherebbe!


Ma Thielemann è Thielemann, nel bene e anche nel male; lui evidentemente si ritiene un wagneriano meglio di Wagner tanto da permettersi di correggere le partiture del genio di Lipsia con una serie di indicazioni agogiche (dei rallentando, soprattutto) che sono tanto gratuite quanto di facile effetto. Del cast mi hanno personalmente convinto due comprimari: Iain Paterson che è un Kurwenal davvero autorevole come non capita spesso di sentire e Christa Mayer, un’ottima Brangäne. Stephen Gould si è ben difeso, ma mi è parso continuamente tirare il freno a mano, forse temendo di rompersi al primo serio sforzo. Chi mi ha francamente deluso è stata Evelyn Herlitzius, discreta solo quando deve cantare a mezza voce (Liebestod compreso) ma che appena deve forzare un po’ verso gli acuti ha la voce che si sbianca e metallizza in modo davvero sgradevole: le rinunciatarie (o protestate) Westbroeck e Kampe avrebbero avuto poche difficoltà a far meglio (per il 2016 già si parla di Petra Lang!) Georg Zeppenfeld è un Marke discreto, ma per me gli manca quella profondità di voce e tono (tipo il Talvela dei bei tempi, per dire…) Persino il marinaio, che ha il gravoso compito di aprire (a cappella) il dramma ha esibito una voce quasi ridicola, degna di Mime.

Se si aggiunge che anche la messinscena di Kathi non pare aver sollevato entusiasmi (almeno a dar retta al parere dell’inviato RAI, Marco Maugeri, solitamente aperto e ben disposto rispetto alle innovazioni registiche) si deve concludere che la montagna (anzi no: la collina verde) ha partorito un topolino. Che va ad aggiungersi alla colonia di Neuenfels, che proprio oggi aprirà il suo ultimo ciclo di vita lassù.

Ecco, con questo lungo e sofferto scritto la chiudo lì sull’edizione 2015. Vado a mettere i piedi a mollo nel brodo di quello stagno che chiamano Adriatico.

23 luglio, 2015

Bayreuth 2015: debutta la coppia Christian-und-Kathi

  



Sì, una specie di Tristan-und-Isolde, della cui nuova produzione – la grande novità di quest’anno - i due saranno i principali artefici, a partire da sabato 25 luglio. (Qualche maligno potrebbe anche proporre un parallelo con la famigerata coppia Winifred Wagner - Heinz Tietjen di hitleriana memoria!)


Lei come premio riceverà, proprio alla chiusura dell’edizione 104 del Festival, l’esclusiva della Direzione di questo circo-barnum, essendosi finalmente sbarazzata (grazie al determinante aiuto del Kapellmeister, si mormora) della sorellastra Eva con la quale aveva dovuto dividere il posto dal lontano 2009. Lui - smaltita la delusione per la mancata chiamata dai Berliner - da semplice preparatore musicale del Festival ne diventa Musikdirektor.

E per mettere subito in chiaro chi comanda in fatto di suoni e voci, l’autoritario Christian ha già licenziato non una, ma ben due Isolde (poi l’ufficialità vuole si sia trattato di spontanee rinunce delle cantanti): dapprima è toccato ad Eva-Maria Westbroek e poi è stata la volta di Anja Kampe. Così il personaggio della selvaggia Irlands Kind sarà interpretato da Evelyn Herlitzius, non nuova nel ruolo, che peraltro non è certo un suo cavallo di battaglia.     

Navigando nel sito del Festival, ho notato un particolare che mi sembra – potrei sbagliare – un’assoluta novità: si ipoteca già il 2016! Nel senso che le statistiche del Festival (che di norma dovrebbero comprendere la corrente edizione, non anche le future!) già includono invece anche il 2016 per molti (non tutti, attenzione!) i protagonisti – sonori e non – dei titoli. Per dire, Stephen Gould è già consuntivato come Tristan anche per l’anno prossimo, mentre invece la Herlitzius risulta assumere il ruolo di Isolde limitatamente al 2015. Un caso interessante riguarda il Ring, per il quale il regista Castorf è già accreditato anche dell’edizione 2016, mentre Kirill Petrenko è fermo al 2015: mica ci sarà sotto qualcosa con Thielemann per via della preferenza data dai Berliner al russo, che per di più se la spassa con la Kampe, dal medesimo Thielemann protestata per il ruolo di Isolde?... Sì, tutti sanno che certi contratti si stipulano con anni e anni di anticipo (così come vengono disdetti anche senza preavviso, come ben sappiamo dalle vicende scaligere) ma altra cosa è indicare già oggi la presenza 2016 nel curriculum bayreuthiano di un tenore (o di un costumista, per dire): fossi nei citati a futura memoria mi procurerei da qualche immigrato napoletano una montagna di amuleti scaccia-sfiga!

Per chi, nonostante le svendite last-minute, si ostina a non pianificare il pellegrinaggio alla verde collina, c’è sempre la radio: mamma RAI (Radio3) ci delizierà con Tristan (25, 16:00) Lohengrin (26, 16:00) e Holländer (31, 18:00) risparmiandoci ancora il Ring petrolifero di Castorf.

Ma al Ring ci pensa, come sempre, momia Radio Clasica, che ci eviterà di perdere la pregevole – ne sarei certo – esecuzione di Petrenko (27-28-30-1).
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Dunque, Tristan! Sempre spulciando il sito del Festival, si scopre una significativa pagina bianca al link intitolato Inszenierung, dove per gli altri titoli si trovano invece note (più o meno interessanti) sui diversi allestimenti. Domanda: perché? Segreto industriale della Kathi che non vuole sbilanciarsi nemmeno di un millimetro, per sorprenderci (anzi no, sorprendere chi vorrà anche vedere, oltre che ascoltare) sabato prossimo? Oppure il Konzept della pronipotina terribile è così complicato che non lo si può presentare in 50 righe? Oppure il palco resterà vuoto come la pagina web e anche i cantanti saranno giù a cuocere nella fossa? Vedremo (anzi: vedranno). 


Come sua abitudine, Wagner prese lo spunto per il suo Tristan dai racconti medievali (primo fra tutti quello di Gottfried von Straßburg) per poi liberamente piegarli alle proprie concezioni estetiche e filosofiche. Ecco quindi che quelle farraginose e improbabili storie diventano, nella sua penna, autentici capolavori dove la componente psicologica prende quasi sempre il sopravvento. Non per nulla si parla di Wagner come del Freud ante-litteram.

Tristan si può benissimo interpretare come dramma che nasce dal conflitto quasi insanabile fra due personalità tanto forti da preferire l’auto-annullamento piuttosto che svelare per prime i propri sentimenti: nel nostro caso un maschilismo e un femminismo a dir poco autodistruttivi. E il primo atto della Handlung non fa che sviluppare questo assunto; poi ci penserà il filtro magico a garantire l’esistenza dei due atti successivi.    

Il big-bang dal quale prende inizio e sviluppo il dramma è un ben preciso e fatale momento: l’istante dello sguardo. Quello che i due si scambiano quando lei, dopo averne curato la ferita, ha riconosciuto nel sedicente Tantris il nemico Tristan, l’uccisore del suo promesso sposo (Morold). Così, invece di ucciderlo, fulminata dallo sguardo di lui, lascia cadere la spada e lo risparmia: ciò facendo gli rivela implicitamente il suo amore, ma la sua presunzione (di donna intellettualmente emancipata) e insieme il suo subconscio (di donna tout-court) le impediscono di abbassarsi ad esternargli il suo sentimento, e le impongono di attendere che sia Tristan a fare il primo passo.

Tristan non solo si rende conto di essersi, a sua volta e in quel preciso momento, innamorato (orrore, per un cavaliere della sua statura!) e sa perfettamente - o almeno così crede il suo maschilista subconscio - di aver fatto colpo, con quello sguardo, su Isolde; ma la sua presunzione (di maschio superiore) gli impedisce di abbassarsi ad esternarle il suo sentimento, e gli impone di aspettare che sia lei a cadergli ai piedi.

Ecco il cuore del dramma: entrambi aspettano che sia l’altro(a) a cedere per primo(a). Una situazione di stallo, un autentico surplace; e quindi un equilibrio instabile, che non può diventare normalità, ma che dovrà essere rotto, inevitabilmente e traumaticamente.

Infatti, siccome nessuno dei due è disposto a cedere, la nevrosi che si crea all’interno delle rispettive psiche e quindi fra le loro persone, sale fino al parossismo. Entrambi perdono letteralmente la testa (in linguaggio scientifico: schizofrenia acuta) e mettono in atto sconsiderati propositi di distruzione dell’altro(a), in un’assurda e freudiana escalation, che culmina con il gesto di suprema, speculare presunzione: l’assunzione del filtro di morte.

E per l’appunto il filtro libera finalmente entrambi dalla schiavitù delle convenzioni (i vacui e presuntuosi vaneggiamenti, i rispettivi Träume, di Ehre e Schmach) e così può finalmente entrare in campo e in scena una cosa, straordinaria ma indescrivibile perchè oscura (misterioso, altero...) che quelle stesse convenzioni (di cui anche noi spettatori siamo schiavi) chiamano irrispettosamente: amore.

Nel primo atto, Wagner ci fa di Tristan e Isolde due ritratti - per certi aspetti - simili, o speculari (sono entrambi affetti da acuta schizofrenia) ma per altri assai diversi; in particolare:
- Isolde racconta apertamente e senza pudore i suoi sentimenti: a Brangäne e a tutti noi, ma non a Tristan; a quest’ultimo racconta più che altro storie inverosimili, o come minimo provocatorie;
- Tristan invece, i suoi sentimenti non li racconta proprio a nessuno (nè a Kurwenal, nè a noi, nè tanto meno ad Isolde).

Già in ciò possiamo forse individuare un tratto che oggi si definirebbe maschilista nel carattere di Tristan, ma in realtà di Wagner medesimo. (Ne avremo una chiara conferma al momento dell’assunzione del filtro: Isolde la programmerà come atto congiunto e unificante, mentre Tristan la compirà smaccatamente da solo, come manifestazione di superiorità.)

Dunque, Tristan e Isolde, al primo sguardo, si sono innamorati. O meglio: nelle rispettive psiche è scoccata una scintilla, il big-bang appunto, si è prodotta la classica oscillazione brusca, tipica dei sismografi allorquando rilevano un - vicino o lontano - terremoto.

Che Isolde sia innamorata ce lo dice - ma proprio esplicitamente - lei stessa, all’inizio della Scena II: Mir erkoren, mir verloren, hehr und heil, kühn und feig! Todgeweihtes Haupt! Todgeweihtes Herz! Non c’è dubbio che si tratti di una straordinaria dichiarazione d’amore. Però si tratta di un amore impossibile, quello di una donna per un uomo votato - ragione e sentimento - alla morte! Uno - crede lei - per il quale l’amore è una categoria sconosciuta, che non trova posto nella sua Heldenleben (per questo, oltre che kühn - ardito - è anche feig - vile!) Ma essendo lei prigioniera della sua stessa presunzione, oltre che delle convenzioni, si guarda bene dal muovere il primo passo verso l’amato.

Tantris, guarito da Isolde, torna come Tristan a casa di Re Marke, in Cornovaglia, ma quella scintilla, scoccata nella sua psiche al momento dello sguardo, ha ormai fatto divampare un incendio che lo sta consumando insopportabilmente. Come ammetterà nell’Atto II, in fondo al cuore (...bis in des Herzens tiefsten Schrein) la ama, ma contemporaneamente il suo subconscio comincia ad odiarla, come responsabile di avergli creato questa condizione, per lui innaturale: ma come! un puro eroe che si è fatto irretire da una donna? Per di più così superbamente fiera (...so rühmlich schien und hehr...) che gli pare irraggiungibile, a meno che lui non si abbassi ad abdicare all’intero suo sistema di valori. E questo è ancora nulla: la donna in realtà ha anche in mano la sua vita, e non una, ma due volte addirittura: per avergli risparmiato una sicura morte (la spada lasciata cadere) e poi per averlo curato e rimesso in salute. 


Questa doppiezza di sentimenti (schizofrenia amore-odio) ingenera in Tristan l’idea di un folle disegno: far sì che lei sia costretta ad essergli vicina, così da minacciarla con un’alternativa secca: la prospettiva di rodersi nell’ansia per il resto dei suoi giorni, o cedere e dichiararsi a lui. Domanda: perché mai Tristan obbliga un riluttante Re Marke, addirittura minacciando di abbandonarlo, ad accettare Isolde in moglie? Nella sua lunga esternazione del second’atto, dopo la scoperta del flagrante adulterio, il sovrano ricorda come si fosse fieramente opposto all’idea del matrimonio ed avesse infine ceduto alle pressioni quasi ricattatorie del popolo sobillato da Tristan, che aveva poi preteso di essere lui stesso a recapitargli Isolde, andandola a prelevare in Irlanda. E tutto ciò per trovarsi ora tradito proprio dal suo delfino e proprio con la moglie! Il Re, oltre e più che addolorato, è incredulo e stupito (…warum mir diese Hölle?) dal comportamento di Tristan.

Il quale comportamento non è certo determinato dal codice cavalleresco, bensì dalla tremenda frustrazione (e relativa dissociazione) che lacera la sua psiche! E già dal viaggio di ritorno dall’Irlanda, sulla nave ammiraglia che ci appare all’alzarsi del sipario, Tristan mette in atto il suo piano: restare a portata di sguardo di Isolde, e contemporaneamente ignorarla. Costringerla ad uno psicologico e logorante braccio di ferro, da cui lei esca comunque piegata: o rassegnandosi a subire una perenne sofferenza, o cedendogli finalmente (nel qual caso a Tristan basterebbe dare un semplice comando alla ciurma: virare a dritta di 90°, e volgere la prua a sud, invece che ad est!)

Che Tristan in cuor suo aspetti quest’ultimo evento risulta inequivocabilmente chiaro dal suo trasalire (auffahrend) e dalla sua emozionata esclamazione (Was ist? Isolde?) all’annuncio fattogli da Kurwenal dell’arrivo del messaggio recato da Brangäne. Ma subito si ricompone (Er fasst sich schnell...) e per ora continua a tirare la corda, rifiutandosi di far visita alla principessa, con la scusa di dover reggere il timone.

Isolde, dal canto suo, è ormai convinta, dal comportamento tenuto da Tristan, che egli per davvero la consideri nulla più che un articolo da regalo (per Marke). Lo ama, ma contemporaneamente comincia ad odiarlo - e non solo per la sua indifferenza, ma anche per la sua ingratitudine - e a meditare sull’insostenibilità del suo proprio futuro: dover sopportare la vicinanza dell’uomo amato senza poterlo avere (Ungeminnt den hehrsten Mann stets mir nah zu sehen, wie könnt ich die Qual bestehen?)

Analizziamo un attimo lo stato in cui si trova la sua psiche: lei si è innamorata dell’uomo che le ha appena ucciso il promesso sposo, quindi subisce già per questo una gigantesca costrizione psichica, con annesso senso di colpa; per di più, l’uomo di cui si è innamorata la ignora bellamente (frustrazione...) Insomma: lei ama perdutamente un tale che le ha distrutto la felicità passata e contemporaneamente le prepara l’infelicità futura! Davvero una condizione insostenibile. 
Come si vede, il disegno di Tristan parrebbe concretizzarsi…

Ma lei, fra la scelta tra eterna infelicità con Marke e resa incondizionata a Tristan, decide per la terza opzione: farla finita... Da sola? Fosse così, le basterebbe tracannare il filtro di morte dall’ampolla che lei stessa ha chiaramente contrassegnato. No, evidentemente anche Tristan deve morire, per pagare la sua colpa, il suo peccato di presunzione, di ingratitudine, di indifferenza e di superbia; affinchè - almeno nella morte - i loro destini si possano finalmente incontrare. Il problema di Isolde, a questo punto, è: come creare l’occasione per il mortale brindisi con lui?

Quando Kurwenal la sollecita a prepararsi per essere accompagnata da Tristan verso Marke, è lei a trasalire e rabbrividire: il viaggio sta per concludersi, e l’occasione rischia di sfumare! E allora trova un pretesto - la riconciliazione dovutale per una colpa non espiata - per incontrare Tristan prima dello sbarco. E fa preparare a Brangäne il filtro di morte, per Tristan e per sè.

Tristan - anche per lui ormai il tempo stringe - adesso dimentica il pretesto del timone e si presenta ad Isolde, ma con atteggiamento formale, scruta le intenzioni della donna (segretamente spera ancora e sempre nel miracolo?) risponde con frasi fatte alle di lei rimostranze riguardo l’etichetta, domanda quale sia il motivo per cui Isolde chiede riconciliazione.

Per tutta risposta, Isolde si inventa una nuova, inverosimile spiegazione al comportamento da lei tenuto con Tantris. A Brangäne aveva raccontato una prima verità: di non aver ucciso Tantris perchè intenerita dalla sua misera condizione... A Tristan racconta invece di averlo risparmiato e rimesso in sesto perchè lui potesse poi essere vittima di un legittimo vendicatore di Morold (!?) Vendicatore che però non può esistere in alcun luogo, essendo ora Tristan da tutti amato...

Al che Tristan, pallido e cupo, offre ad Isolde la sua spada perchè lei stessa possa compiere la vendetta. Ma attenzione: le si rivolge non più con il lei, ma con il tu (!?!) Perchè questo stato d’animo? E perchè questo improvviso mutamento di etichetta? Comincia per caso a sospettare che Isolde non lo ami? Che il suo atteggiamento di allora fosse davvero motivato dal solo, cinico disegno di vendetta? (o da pura carità cristiana, null’altro?) Insomma: un sospetto che ingigantisce la sua frustrazione; sì, poichè se le cose stessero così, allora sarebbe tutto il suo castello di carte a cadere miseramente. E con esso perderebbe di significato la sua propria esistenza: ed allora, tanto vale chiuderla, una volta per tutte! E per di più offrendo a quella stessa donna altera e presuntuosa la spada con cui finirlo, per manifestarle tutta la sua superiorità di maschio…

Isolde rifiuta però la spada adducendo due giustificazioni: (a). Come potrei uccidere il servitore fedele del Re a cui vado sposa? (b). Ciò che non feci tempo addietro (con Tantris) a maggior ragione non potrei fare ora. Ma allora, sta forse per cedere? Per rivelare a Tristan che lei lo ama fin dal primo momento? Al contrario, lei decide di alzare ulteriormente la posta, aggiungendo un particolare di portata capitale: tu, Tristan, mi guardasti fisso negli occhi per valutarmi (come fa un mediatore di vacche che scruta un capo per deciderne il prezzo) e per capire se ero degna di andare in sposa al tuo Re (!?!) Ma davvero Isolde è convinta di una simile ipotesi? Insomma: sta qui confermandoci di aver ormai perso tutte le speranze, oppure sta tentando l’estrema provocazione, per costringere Tristan a cedere?

E infatti, dopo che Isolde rifiuta la spada, Tristan cade in cupa meditazione (...düsterem Brüten). Come mai? Sta forse ancora cercando di capire quali carte stia giocando l’altra? Oppure è per caso anche lui sul punto di cedere? Perdinci, lui sa bene quali fossero (e siano) i suoi sentimenti verso Isolde e che quando le rivolse quello sguardo non era certo per misurarne le qualità esteriori... gli basterebbe una parola per rompere finalmente quel muro di presuntuosa incomunicabilità che li separa!

E invece, finster (cupo) sempre più schiavo della sua nevrosi, decide pervicacemente di continuare nel braccio di ferro, e pronuncia la famosa, criptica frase: ...fass' ich, was sie verschwieg, verschweig ich, was sie nicht fasst.

Che significa? Non significa, per caso (nel suo maschilista subconscio!): io ho capito che tu mi ami, anche se me lo nascondi... mentre tu non capisci che io ti amo, e perciò te lo nascondo (perchè non mi meriti...) ?!?

Ormai il tempo stringe, si sta gettando l’àncora, e Isolde non può che giocare il tutto per tutto: mit leisem Hohne, quasi schernendolo, detta a Tristan il discorsetto di circostanza da fare a Marke, di lì a poco, in occasione della consegna del regalo!

E Tristan, a questo punto - ormai ha la disperata conferma che il futuro rischia di essere insopportabile per lui, quanto e più che per Isolde - beve per primo e da solo. In modo da chiudere (guarire del tutto) un’esistenza divenuta per lui invivibile e contemporaneamente per dare alla donna che non lo ha capito - o che non si è voluta piegare - l’estrema, inequivocabile e sprezzante lezione di superiorità.

E infatti Isolde si sente ancora e nuovamente tradita e disprezzata: per bere a sua volta, deve letteralmente strappargli di mano la coppa.

Insomma: nessuno dei due ha voluto/saputo cedere all’altro(a). Una speculare schizofrenia li ha costretti ad agire contro se stessi e - in definitiva - contro l’Amore!

La tensione psicologica, che si era creata entro ciascuno dei due e fra i due, ha ormai raggiunto il suo apogeo: in realtà siamo arrivati al limite di rottura di quell’instabile equilibrio, al momento in cui il surplace risulta non più prolungabile.

A questo punto il dramma avrebbe anche potuto chiudersi lì, con i due protagonisti a morire, ai lati opposti della scena, ciascuno vittima della propria presunzione, oltre che delle vigenti convenzioni (Ehre e Schmach). Insomma: un tragico atto unico, una Cavalleria Rusticana ante-litteram e sui-generis!

Wagner aveva però ancora da confezionare, per poi somministrarceli, due etti - pardon, due atti - di oppio (amore e morte); e, come farebbe ogni grande mago o stregone, si è servito di un filtro per garantirsi la possibilità del taglio e dello spaccio.    

21 luglio, 2015

Ultime del Moro alla Scala

 

Ieri sera una Scala con parecchi vuoti ha offerto la penultima recita di Otello (quello di Rossini, reso obsoleto - secondo la vulgata – da Verdi) accolto alla prima da feroci contestazioni seguite poi da blande approvazioni.

Sul podio Muhai Tang, un cinese! A dirigere Rossini?! Evidentemente a qualcuno la cosa deve far venire l’orticaria… però, ricordato che quella cinese è una civiltà che poco ha da imparare dalla nostra, io mi limito, nel mio microscopico, a far funzionare la memoria, ricordando una sua eccellente interpretazione di Sheherazade nel non troppo lontano 2010, all’Auditorium con laVERDI, in un concerto tutto russo.

E poi, per quante remore si possano avanzare sulle registrazioni elettroniche, la sua direzione dell’Otello a Zurigo nel 2012 non mi parrebbe proprio da… Alcatraz, tutt’altro! In effetti anche ier sera il 65enne da Shanghai a me personalmente non è per nulla dispiaciuto, avendo fatto suonare l’orchestra in modo apprezzabile e diretto e accompagnato i cantanti con sicurezza: insomma, una più che dignitosa concertazione. Da elogiare in buca il primo corno nella mozartiana (K467) introduzione all’entrata di Desdemona e clarinetto e flauto nell’accompagnamento al salice, con l’arpa peripatetica sul palco.

I tre tenori. Gregory Kunde è un Otello magari un po’ troppo verdizzato, senza tentazioni pericolose (si guarda bene dall’inventare – come fa Osborn a Zurigo - il RE sovracuto nel sento infiammarsi il cor) e ciò non guasta affatto, mettendo meglio in risalto le differenze di carattere con il Rodrigo di Juan Diego Florez, sempre sicuro e convincente in tutta la gamma (RE compreso). Chi ha una bella voce, ma ahilui di portata limitata, è Edgardo Rocha, uno Jago che fatica a farsi udire specie nell’ottava bassa.

La Desdemona di Olga Peretyatko è condizionata dalla… voce del soprano russo, che scarseggia di profondità nei centri e ghermisce gli acuti con qualche approssimazione: ormai ad anni di distanza dai suoi esordi mi pare arduo immaginare che possa salire ulteriormente di livello, il quale rimane discreto e non di più.

Efficace invece suo padre, Roberto Tagliavini, bella voce corposa e penetrante, così come quella dell’Emilia di Annalisa Stroppa: due comprimari davvero all’altezza. Anche Nicola Pamio è un Doge più che dignitoso. Sehoon Moon (con tanto di pizzo lungo e intrecciato, alla mandarino) canta in scena e non dietro le quinte, il che fa perdere parecchio pathos alla sua dantesca esternazione.

I seguaci di Otello e il Coro di Casoni hanno dato il loro valido contributo alla generale buona riuscita della recita sul fronte musicale. E il pubblico ha infatti tributato a tutti calorosi applausi con punte di trionfo per JDF. Allo spegnersi del MIb conclusivo un isolatissimo buh si è udito dalla seconda galleria, immagino indirizzato alla regìa, visto che durante tutta la recita non c’erano stati che applausi, anche ai due ritorni di Tang sul podio. E quindi facciamo un po’ di conti in tasca a Jürgen Flimm.

Dico subito che il regista - qui anche in veste di co-produttore, essendo lui sovrintendente dell’Unter-den-Linden, che affianca la Scala in questa proposta – non ha fatto troppi danni al soggetto originale, e questo è già un merito. Magari ha cercato di re-shakespeare-izzarlo, viste le distanze che il libretto di Berio (mutuato da Ducis) presenta rispetto la tragedia del genio di Stratford.    

O magari di Boito-izzarlo, se prendiamo ad esempio il personaggio di Jago: che in Shakespeare è un genio del male mosso da cieco vittimismo e in Boito il genio del male tout-court, mentre per Ducis-Berio è un poveraccio frustrato in cerca di rivincite. Ecco, Flimm ci presenta il suo Jago come dominus dell’intera vicenda, infatuato di una per lui irraggiungibile Desdemona (che surroga accompagnandosi spesso ad una controfigura della protagonista). La spiegazione esplicita del movente dello sbifido individuo ci viene mostrata all’inizio della scena V del prim’atto, dove lui entra subito dopo che Desdemona ed Emilia dovrebbero essere uscite: qui invece Jago grida la sua maledizione alla donna rovesciandola su un tavolo in un atto quasi di stupro… E Jago fa spesso capolino dalle quinte ad origliare conversazioni, poi quale arbitro dell’incontro di fioretto Otello-Rodrigo (che peraltro si svolge in un ring di boxe) fino a comparire – dopo morto! – alla fine, nel corridoio della platea (sempre accompagnato dalla sua finta-Desdemona) e cantando la parte di Lucio (così si risparmia un quarto tenore, smile!) quasi a pilotare anche la conclusione della vicenda.  

Siccome si rimprovera sempre al libretto la sostituzione – quale prova dell’infedeltà di Desdemona – del fazzoletto con un biglietto galante, ecco che Flimm fa comparire la donna, anziché alla scena IV, già in quella iniziale, dove lei lascia cadere, con malcelata indifferenza, un fazzoletto ai piedi di Otello (?!?)

A queste quasi innocue trovate va aggiunta – nell’atto finale - la comparsa in scena di una gondola (per la verità, la forma è più quella di una piroga indiana) che spiega a noi ignoranti il perché della canzone del gondoliere (cinese, poi! qui siamo davvero avanti con i tempi della globalizzazione…) la quale fungerà anche da letto di morte della protagonista.

Quanto all’ambientazione, si può solo dire che – salvo al finale piombare al suolo dei velari-scena, che mostrano i macchinari del teatro e coro e comparse in abiti moderni – sia collocata in un tempo imprecisato: c’è un po’ di Shakespeare (e dagli!) a giudicare dalle lattughe (o gorgere) che circondano i colli di senatori e nobili, tutti in rigoroso nero-da-cerimonia; ma i cappelli a cilindro ci portano come minimo nell’800, così come gli abiti delle signore. Magari le sedie in plastica da giardino sono ancora un filo più moderne, ma comunque non si sono notati i-pad, smart-phone, beretta-m92, mitragliette a canna corta né sigarette elettroniche, ecco.

Per tirare le somme: magari questa riproposta scaligera dell’Otello rossiniano dopo… secoli meritava qualcosa in più, ma diciamo che poteva andare assai peggio: almeno Rossini lo si è potuto gustare (parlo per me, ovviamente) con una certa soddisfazione. E ciò è un buon antipasto per il ROF-36, che arriva fra poche settimane.     

13 luglio, 2015

Si avvicina Bayreuth 2015

 

Sabato 25 luglio con Tristan-und-Isolde si aprirà l’edizione n°104 del Festival più famoso, ed oggi più contestato, del mondo. Da quel lontano 1876, quando fu inaugurata con i primi tre cicli del Ring, la kermesse wagneriana ha mancato l’annuale appuntamento 36 volte in 140 anni:

1877-1881
1885
1887
1890
1893
1895
1898
1900
1903
1905
1907
1910
1913
1915-1923
1926
1929
1932
1935
1945-1950

Come si vede, da quando fu riaperto dopo la WW2 (1951, affidato ai fratelli Wieland e Wolfgang, nipoti di Richard) il Festival non ha più perso un colpo.

In tutto si conteranno (a fine agosto 2015) 2622 rappresentazioni dei drammi wagneriani. La tabella sottostante mostra come sia Parsifal a guidare la classifica di presenze, per numero di edizioni che lo hanno visto in cartellone e di singole recite.

titolo
stagioni
rappresentazioni
allestimenti
Parsifal
90
519
9
Ring (ciclo)
84
    893
14
    Rheingold

223

    Walküre

223

    Siegfried

222

    Götterdämmerung
  
225

Meistersinger
47
307
11
Tristan
45
226
11
Holländer
38
227
10
Lohengrin
37
230
9
Tannhäuser
35
220
8

Il Ring vanta invece il maggior numero di allestimenti, mentre Tannhäuser è fanalino di coda sotto tutti i rispetti.

Sul fronte dei Direttori quest’anno avremo una new-entry, rappresentata dal quarantenne Alain Altinoglu, chiamato a sostituire Andris Nelsons nell’ultima serie del Rattengrin di Neuenfels. Confermati il neo-berliner Kirill Petrenko nel Ring oleoso e Axel Kober nell’Holländer.

Christian Thielemann, ormai sulla strada di diventare padrone (sul fronte musicale) della verde collina, con i 6 Tristan di quest’anno supererà di slancio il mitico Horst Stein (138 volte sul podio fra il 1969 e il 1986) e affiancherà in seconda posizione, con 142 presenze, Peter Schneider, minacciando ormai da vicino il record (161) detenuto da Daniel Barenboim.

09 luglio, 2015

Scala : fra un buh e l’altro…

 

Di questo Otello (solo un dettaglio insignificante: è quello di Rossini!) dopo le prime due recite non si sente dire un gran bene: la prima contestatissima (ma potrebbe essere il ritorno di una tradizione scaligera che recentemente aveva un poco latitato) e la seconda così-così, almeno a leggere recensioni e commenti. Insomma, ci sarebbe da preoccuparsi per chi, come il sottoscritto, si appresta ad assistervi fra qualche giorno. (Però io sono convinto, e spero proprio di non sbagliarmi nemmeno stavolta, che l‘arte di Rossini stia al di sopra di ogni possibile tradimento; così continuo ad immaginare di vedere – no, come minimo di ascoltare - prossimamente un Otello per lo meno non denunciabile per truffa, ecco.)

Nel frattempo parliamo un po’ di imprestiti: strumento di abituale impiego per Rossini (ma non solo per lui) allorquando si trattava di produrre musica a tambur battente e mancava il tempo per inventarne di nuova. Così si scopiazzava, o si prendeva proprio di peso, musica già pronta e la si impiegava per fini anche diversi e persino opposti a quelli per i quali era stata composta. Il numero di auto-imprestiti rossiniani è davvero enorme e Otello non fa eccezione, presentando nel corpo dell’opera tre casi specifici, che richiamerò sommariamente alla fine.

Ma vorrei invece porre l’attenzione su quelli che riguardano le 9 Sinfonie/Ouverture di opere presentate nei poco più di 3 anni compresi fra il dicembre 1813 (Aureliano) e il gennaio 1817 (Cenerentola): poiché in esse troviamo attinenze dirette (Turco e Sigismondo) o indirette (puramente temporali) con Otello. Subito prima del Turco (dal quale germoglierà Sigismondo e da qui Otello) Rossini aveva presentato appunto l’Aureliano, la cui Sinfonia (che richiama temi dell’opera) fu poi re-impiegata tal quale in Elisabetta e Barbiere (che si collocano temporalmente fra Sigismondo ed Otello). Sempre in questo lasso di tempo Rossini compone Torvaldo, che alimenterà parzialmente la Sinfonia della Gazzetta (secondo tema, in LA maggiore nell’esposizione e RE nella ripresa, trasposto a SIb e MIb nella Gazzetta); la quale Sinfonia verrà poi impiegata tal quale per la successiva Cenerentola.

Lo schema che segue intende mostrare in forma grafica questi imprestiti (i colori e le frecce - continue o spezzate - rappresentano impieghi parziali o totali):


Come si può notare, 6 Sinfonie su 9 sono frutto di copiature integrali o di parziali imprestiti da altre: una vera e propria moltiplicazione di pani e pesci! 

Veniamo adesso all’Otello e alla genesi della relativa Sinfonia (si veda lo schema riportato più sotto). Tutto nasce dal Turco e in particolare dalla sua Introduzione in RE maggiore e in tempo Adagio la quale - con il suo tema (TI) - verrà riproposta, con due varianti sostanziali (il tempo accelerato ad Andante e l’assolo in FA-RE del corno trasferito all’oboe e arricchito nella cadenza) nel Sigismondo e da qui trasportata pari-pari nell’Otello.

La struttura delle tre Sinfonie è sempre la stessa: un tempo in forma-sonata privo di sviluppo. Quindi, dopo l’Introduzione (Adagio o Andante) abbiamo, sempre in Allegro o Allegro vivace, l’Esposizione di due temi (il primo nella tonica RE, il secondo nella dominante LA) entrambi seguiti dai rispettivi crescendo, il primo dei quali si conclude con una serie di quarte ribattute, che ritroviamo nelle tre Sinfonie. La Ripresa ripresenta entrambi i temi nella stessa tonalità (in ossequio ai canoni della forma-sonata). Una Coda, variamente basata sul tema TI dell’Introduzione, chiude i tre brani.

Le differenze principali fra questi riguardano i contenuti. Nel Turco vengono esposti e poi ripresi due temi, dei quali il primo (TT1) è originale, mentre il secondo altro non è se non il TI (Introduzione) arricchito da svolazzi di flauti e oboi e da un bellissimo intervento della tromba. Anche il secondo crescendo si basa su TI. La Ripresa si struttura diversamente (è abbreviata) dall’esposizione, in quanto ripresenta TT1, ma senza il suo crescendo (CT1) né quindi le quarte ribattute: si passa direttamente al tema TI e al relativo crescendo (CT2).

Il Sigismondo comporta una radicale rivisitazione (salvo l’Introduzione) dei contenuti tematici del Turco. Infatti vengono esposti (e poi ripresi) due nuovi temi (TS1 e TS2, quest’ultimo mutuato da TI) con i relativi crescendo (CS1, in cui appare TI, e CS2). Dopo una diversa transizione (che rispetto al Turco non ha gli stessi chiari riferimenti alla coda dell’Introduzione) la Ripresa, a parte la tonalità uniforme, rispecchia assai fedelmente la struttura dell’Esposizione.

L’Otello mutua in pieno la struttura e in gran parte i contenuti del Sigismondo. A parte scostamenti nella strumentazione (qui ignorati per semplicità di analisi) la differenza fondamentale è rappresentata dal secondo tema (TO) che sostituisce il TS2, mantenendone però il successivo crescendo (CS2); inoltre il primo crescendo (CS1) non presenta gli incisi TI. Difficile legare la sostituzione del secondo tema del Sigismondo con uno nuovo per Otello a specifiche esigenze estetiche legate alla nuova opera, dal momento che anche questo motivo (come gli altri) non vi comparirà più: forse l’averlo già proposto nel finale del prim’atto dell’Elisabetta, oppure chissà, forse Rossini si ritrovò a Napoli con qualche ora di… imprevista libertà, e così impiegò il tempo per inventare un nuovo tema, tanto per rompere la monotonia.

Come detto, la tre Code si basano su TI, ma sono di diversa ampiezza (decrescente dal Turco all’Otello).

Chi vuole approfondire con i suoni può seguire le tre Sinfonie su youtube, con i minutaggi riportati in tabella: Turco, Sigismondo, Otello.


Per chiudere, solo un cenno ai tre auto-imprestiti che compaiono nel corpo dell’opera: il primo riguarda il duetto Desdemona-Emilia (Quanto son fieri i palpiti) dell’atto I, derivato da Se libertà t’è cara da Aureliano (atto II, duetto Aureliano-Zenobia); il secondo riguarda la cabaletta L’ira d’avverso fato (Otello-Jago, atto II) che deriva da quella del Duca Ordow (Ah, qual voce) nel second’atto di Torvaldo; infine (atto III, duetto Desdemona-Otello, Non arrestare il colpo) Rossini richiama due volte e poi sviluppa il famoso tema della Calunnia dal Barbiere (questo imprestito fu però successivamente sconfessato dallo stesso Autore, a seguito della popolarità acquisita dal Barbiere, che era invece ancora sconosciuto nella Napoli del 1816).

04 luglio, 2015

Un Moro qualunque alla Scala

 

Franza o Spagna, purchè… (Pereira prego, completi pure lei). Tradotto nella fattispecie: di Verdi o di Rossini, sempre un Otello è, o no, che ‘vve frega? Quindi perché inalberarsi se, invece del primo annunciato, si dà il secondo ripiegato? Dopotutto siamo alla Scala oh, mica nel più importante teatro del mondo!

Ma certamente a qualcuno (il sottoscritto non escluso) avrà fatto immenso piacere che la Scala – quasi senza volerlo - abbia riproposto un Otello… retrocesso: sì, certo, retrocesso perché sconfitto (per KO, nemmeno ai punti!) da quello del Giuseppe da Roncole (favorito peraltro da uno sfacciato fattore-campo che si chiamava Arrigo Boito!) ma pur sempre un’opera di livello assoluto, che meriterebbe di stare in A1 (o A2, vero, Scala?) a vita.

Si suole indicare come lato debole dell’opera il libretto del Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza). Si parlò ai tempi (Byron, Stendhal) e si parla ancor oggi di un Otello illegittimo, un Otello napoletano, quindi un Otello… taroccato (Salvini, da quel buon illetterato che è, potrebbe imbastirci su una teoria secessionista).

Ma in realtà le cose non stanno proprio così. Intanto perché il librettista, lungi dall’essere un ingenuo ignorante, aveva nella sua biblioteca una messe di pubblicazioni in diverse lingue delle opere di Shakespeare, che quindi doveva conoscere assai bene. Poi perché tra fine ‘700 e inizio ‘800 l’accoglienza di Otello (e del suo autore in generale) fuori da Albione era stata tutt’altro che entusiastica, tanto da consigliare pesanti adattamenti al testo. In Francia Jean-François Ducis aveva presentato una sua versione (che influenzerà non poco il libretto berio-rossiniano) dove Jago veniva retrocesso da personificazione del male a semplice cattivone di passaggio; dove persino la pelle di Otello veniva rischiarata (Michael Jackson ante-litteram) da nera a olivastra; dove il fazzoletto di Desdemona era sostituito da un biglietto galante e dove l’uccisione della donna avveniva con una sbrigativa pugnalata e non con un lungo e insopportabile soffocamento. Non solo, il finale tragico (anche questo particolare verrà accolto episodicamente da Berio-Rossini) venne addirittura reso trasformabile a piacere (dell’occasionale pubblico) in un lieto-fine con soddisfazione di tutti.

Altra fonte di ispirazione per il librettista fu l’Otello di Giovanni Carlo Cosenza, rappresentato a Napoli pochi anni prima dell’opera rossiniana: in esso, oltre alle modifiche di Ducis, si trovano tracce evidenti di ciò che apparirà nel libretto di Berio, come l’ambientazione nella sola Venezia e - in particolare nel terz’atto - la tempesta, la canzone del gondoliere, il nome della protagonista del salice (Isaura e non Barbara) oltre al lieto-fine (presentato poi a Roma nel 1820).

Insomma, le apparenti stranezze del libretto vanno doverosamente inquadrate nel contesto storico e non liquidate sommariamente come frutto di incultura. Dopodichè spetterà comunque alla mano (o alla penna, o alle note, fate voi) di quel Re-Mida che rispondeva al nome di Rossini di costruire su un siffatto testo un eccelso dramma musicale. 

Da stasera le recite scaligere, con un cast in buona parte costituito (Kunde-Peretyatko-Florez) da quello della produzione del ROF-2007.  

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A chi non ci fosse già arrivato per proprio conto, suggerisco di visitare il sito di una mia giovane e brillante conterranea, per leggervi un mirabile saggio sull’Otello rossiniano.