ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

23 agosto, 2014

ROF XXXV live: Aureliano in Palmira

 

Il ROF-35 ha chiuso ieri sera i battenti con la quarta ed ultima replica di Aureliano in Palmira al Teatro Rossini. Dico subito che questa proposta (si tratta dell’ultima opera importante che mancava al carnet del Festival) merita comunque un encomio: probabilmente per la prima volta da… 200 anni si è ascoltato questo prodotto del 21enne Rossini in tutta la sua interezza. Grazie alla Fondazione e a Will Crutchfield che hanno reso possibile l’impresa.

L’ascolto integrale dell’opera lascia peraltro intuire le ragioni del suo scarso successo lungo gli anni, e degli innumerevoli tagli cui è stata regolarmente sottoposta: a dispetto del grande spessore della musica, incredibilmente innovativa se pensiamo al 1813, la sua lunghezza smisurata e la scarsa consistenza del soggetto la rendono difficilmente digeribile. Soprattutto – e vengo a questa proposta del ROF – se la messinscena (di Mario Martone, mi spiace per lui) è di sconsolante banalità, tanto che si può star certi che meglio sarebbe stato affidare la realizzazione dello spettacolo ai ragazzi e ai docenti dell’Accademia di Belle Arti di Urbino (Barbiere docet!)

Ecco, parto subito da Martone. Veramente censurabile la sua proposta, priva di una qualunque cifra interpretativa: sembra il compitino in classe di un ragazzino cui si è fatta leggere la favola della regina Zenobia. Una cosa fra la scimmiottatura di Zeffirelli e la parodia di un filmaccio di Maciste. La scena dei pastori è di un deprimente… realismo: quattro caprette che entrano sul palco a brucare stoppie! Velleitaria l’idea di mettere in scena i due strumentisti al continuo (Lucy Tucker Yates e David Ethève). Ma davvero insopportabile è la trovata finale: per mostrare a tutti che la sua è una regìa impegnata, Martone che ti inventa? Mentre i protagonisti stanno cantando il concertato conclusivo, lui fa scendere il velario trasparente e vi proietta sopra la storia vera (!?) di Zenobia. Così il pubblico si impegna per leggere il pistolotto e si perde tutto il finale! Pistolotto che si conclude con un riferimento di tutta attualità: ciò che accade oggi in medioriente altro non è se non uno strascico di quelle vicende di 2000 anni fa; insomma, i criminali dell’ISIS sono i nipotini di Zenobia! Ma bravo!
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Ma torniamo alla musica. Dicevo: opera altamente innovativa, e non a caso Rossini dedicò alla composizione di Aureliano tempo e fatica insoliti per lui, in quei primi e vorticosi anni della sua produzione. Un chiaro indizio di ciò è il trattamento riservato alla Sinfonia: a differenza dei suoi successivi imprestiti (ad Elisabetta e Barbiere, opere dove non ha alcun riferimento ai contenuti)  motivati quasi esclusivamente da fretta e mancanza di tempo, qui la Sinfonia è parte integrante dell’opera, anticipandone alcuni motivi peculiari: l’introduzione lenta in MI maggiore, che udremo nel second’atto, allorquando Arsace si inoltra nei boschi dopo essere fuggito dalla prigione di Aureliano; la sezione finale del primo tema (in MI minore); il cantabile in SOL maggiore (seconda sezione del secondo tema) e il successivo famoso crescendo e cadenza conclusiva che chiudono il primo atto.

Insomma, Rossini qui fece le cose con il massimo impegno e la massima cura, e i risultati si sentono! E se ne rese conto lo stesso Rossini che, a dispetto dello scarso successo delle prime rappresentazioni alla Scala, pescò abbondantemente nell’Aureliano per successive opere; a parte la sinfonia, ne riutilizzò, rielaborandole ma senza renderle irriconoscibili, alcune melodie: il coro iniziale (Sposa del grande Osiride) fu impiegato nel Barbiere per la cavatina d’esordio di Lindoro (Ecco ridente); la cabaletta di Arsace (Non lasciarmi in tal momento) divenne parte dell’aria di Rosina (sempre nel Barbiere); e di lì a poco anche il Sigismondo mutuerà più di uno spunto dall’Aureliano.
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Il pubblico (teatro quasi esaurito) ha avuto solo apprezzamenti per tutti, ma Jessica Pratt è stata l’autentica trionfatrice della serata: dopo il suo MIb sovracuto (Per donarvi libertà) gli applausi e le urla si sono prolungati per minuti e minuti (forse sperando che la cantante australiana tornasse in scena a rispondere all’omaggio)! In effetti la giunonica Jesica ha sfoderato tutta la sua splendida voce, e solo qualche appunto mi sentirei di muoverle alla scarsa penetrazione nelle note più gravi.

Acclamato anche Michael Spyres, che pure non mi è parso al 100% delle sue possibilità: acuti non perfetti e gravi piuttosto sforzati.

Lena Belkina non mi ha convinto del tutto (rispetto all’ascolto radiofonico): voce poco… contraltile e con timbro che nelle note acute tende a metallizzarsi. Mi verrebbe da dire che al suo posto, come Arsace, avrei visto (sentito) meglio la Raffaella Lupinacci, che invece è stata una più che apprezzabile Publia.

Degli altri, bene il Licinio di Sergio Vitale, mentre non esaltanti mi son parsi Dempsey Rivera (Oraspe) e Dimitri Pkhaladze (Gran Sacerdote). Raffaele Costantini si è dignitosamente comportato nella piccola parte del pastore. Su buoni standard il coro di Andrea Faidutti.

Will Crutchfield ha tenuto un approccio veramente (e direi doverosamente) serioso a questa partitura che lui ha personalmente riportato all’originale splendore, e della quale non ci ha risparmiato nulla (in ciò, come dicevo più sopra, può anche risiedere il limite della sua proposta, che mette a dura prova la… resistenza fisica del pubblico): la sua è una direzione sempre sostenuta, con tempi mediamente dilatati e accenti ieratici; in sostanza, una lettura coerente con l’intera operazione… filologica. L’orchestra Rossini lo asseconda dignitosamente e perdoneremo qualche piccolo inciampo dei fiati.

Tutto sommato direi che si è trattato della più riuscita, musicalmente parlando, delle tre opere del cartellone principale.        
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Ma ecco che, chiuso il 35, già si profila all’orizzonte il 36:


Come si usa precisare in simili circostanze: la Direzione si riserva la facoltà di apportare in qualunque momento modifiche al programma… etc. etc.

22 agosto, 2014

ROF XXXV live: Petite Messe Solennelle

 

Dopo alcuni anni di attesa (era in programma, poi sfumata, nel 2011 con na Patalung) ma ancora in tempo per festeggiarne il 150° anniversario della prima esecuzione nella villa Pillet-Will a Parigi, è tornata finalmente al ROF (dopo l’87 e il ‘99) la Petite Messe Solennelle nella versione con orchestra, secondo la recente edizione critica targata Davide Daolmi.

Ieri sera al Teatro Rossini, con video-diffusione in Piazza del Popolo e pure in streaming, è stato il venerabile Alberto Zedda a dirigere l’Orchestra e il Coro di Bologna (maestro del coro Andrea Faidutti) in questo autentico gioiello del tardo-Rossini. Il quale portò a termine la versione per orchestra praticamente allo scadere della sua esistenza terrena, dopo aver lavorato sulla sua piccola Messa per quasi 7 anni. In effetti Rossini aveva intrapreso l’opera nel 1862, componendo un Kyrie forse in ricordo dell’amico musicista Louis Niedermeyer, di 10 anni più giovane di lui, ma scomparso l’anno precedente e proprio il 14 marzo, giorno in cui si terrà, nel 1864, la prima della PMS. Della Messe solennelle in SI minore di Niedermeyer (1849) Rossini citò – nel suo Christe (Andantino moderato) – l’Et incarnatus, guarda caso anch’esso un brano a cappella.

Le ricerche e gli studi effettuati negli ultimi decenni (Angelo Coan, Klaus Döge, Nancy P. Fleming e Philip Gossett) culminati nel recente lavoro editoriale di Daolmi, hanno portato a chiarire in modo abbastanza preciso quello che fu il percorso compositivo della PMS: contrariamente a quanto si è per lungo tempo ritenuto, di essa non venne dapprima completata la versione da camera (con accompagnamento di pianoforti ed armonium) per poi essere meramente, e quasi svogliatamente e in tutta fretta, trascritta per accompagnamento orchestrale. Viceversa Rossini, dopo l’iniziale stesura della versione da camera, che fu eseguita due volte a distanza di un anno (1864 e 1865) nella cappella di casa Pillet-Will e di cui è sopravvissuta una copia donata da Rossini alla Contessa (versione eseguita per la prima volta in tempi moderni al ROF nel 1997, grazie all'intercessione di Gossett presso i discendenti Pillet-Will) continuò a lavorarci sopra e contemporaneamente a pensare ad una versione orchestrale. Quindi anche la definitiva veste della versione da camera (il cui manoscritto è oggi conservato con quello della versione orchestrale presso la Fondazione Rossini) si è arricchita di tante piccole o grandi modifiche e aggiunte che il compositore apportò al testo in previsione, se non proprio in funzione, della realizzazione della versione orchestrale. La quale fu quindi il risultato finale di un lungo e meticoloso lavoro e non un sottoprodotto da prendere sottogamba, come si è spesso fatto, soprattutto all’inizio del ‘900. Così Daolmi elenca le sommarie fasi della composizione:

1862 Composizione di un Kyrie
1863 Aggiunta di Gloria e Credo («Piccola messa»)
1864 Aggiunta di Prélude, Sanctus e Agnus Dei e prima esecuzione in casa Pillet-Will
1866-68 Aggiunta di O salutaris e orchestrazione della Messa   

Daolmi enumera poi in ulteriore dettaglio ben 8 stadi di lavorazione dell’opera, gli ultimi due dei quali (post-1865) includono importanti interventi sulle sezioni: Gloria, Gratias, Domine, Qui tollis, Quoniam, Cum Sancto, Sanctus; oltre all’inserimento dell’O salutaris e all’orchestrazione. Come si vede, un processo lungo e… tormentato.
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Ai contenuti dell’edizione critica si deve aggiungere in questa esecuzione al ROF una quasi-primizia  – siamo in un Festival, e tutto è permesso! – dovuta allo zampino di Zedda, il quale anni addietro (qui una performance in Russia nel 2012) si è preso la libertà nientemeno che di strumentare il Prélude religieux! Questo brano, aggiunto da Rossini a ridosso della prima del 1864, era stato preso pari-pari da un pezzo per pianoforte dei Péchés de vieillesse (N°2 dell’Album de chaumière) e nella versione da camera viene quindi eseguito su quello strumento. Nella versione per orchestra, che esclude il pianoforte (sostituito in partitura da due arpe) Rossini, avendo deciso comunque di non strumentare il brano, ne assegnò l’esecuzione all’organo, che aveva lasciato in orchestra al posto dell’armonium, pur con funzioni di puro riempitivo. Orbene, Zedda, che evidentemente è così immedesimato in Rossini da conoscere anche ciò che il genio avrebbe fatto se non fosse… morto (smile!) come ragiona?

1. L’organo usato come solo riempitivo in orchestra non ha alcun senso: poiché ne viene ridotta la funzione a un pleonastico collante armonico fautore di un discutibile aumento di sonorità…;
2. Otto minuti di Prélude all’organo più quattro minuti di Sanctus (a cappella) costringono gli orchestrali a starsene con le mani in mano per un’eternità, lasciando nell’interprete e nell’ascoltatore un vago senso di incompiutezza…;
3. Quindi: via l’organo e strumentiamo il Prélude!

Ohibò, come rispetto per l’Autore da parte di un luminare delle edizioni critiche non c’è davvero male. E per nostra fortuna Zedda per la sua strumentazione non ha impiegato i sax, altrimenti si sarebbe materializzata proprio la nera profezia di Rossini riguardo al futuro della sua povera Messa! Scherzi a parte, non si può non dare atto all’ottuagenario Maestro di aver messo nell’impresa tutta la cura e la professionalità di cui è capace, scegliendo accuratamente gli strumenti cui affidare le diverse sezioni del Prélude (aperto dal recitativo del clarinetto basso) e dosando con cura le sonorità, dai pianissimi ai tutti. Prendiamolo come un interessante esperimento, ma il risultato estetico per me è discutibile, poiché priva l’opera di quel particolare momento di respiro e di raccoglimento (dopo le colossali fughe di Gloria e Credo) che ne è uno dei principali pregi.  
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Orchestra e coro erano quelli di Bologna, che da anni e anni al ROF la fanno da padroni (non a caso adesso c’è un… Mariotti in entrambi gli ambienti, e proprio il patron del ROF, prima dell’inizio, ha voluto festeggiare il sodalizio consegnando un enorme bouquet di fiori al decano dell’orchestra, la prima viola Harry Burton Wathen). In tutto 40 coristi e poco meno di 60 strumentisti (in disposizione moderna, con le viole al proscenio): un organico quasi tardo-romantico, che finisce per trasformare la Petite in qualcosa che assomiglia più a Berlioz o a Mendelssohn o a Brahms (non dico a Mahler!)   

I solisti erano Olga Senderskaya (S) Veronica Simeoni (A) Dmitry Korchak (T) e Mirco Palazzi (B) che, come prassi di tradizione, ma contrariamente alle indicazioni esplicite dell’Autore, cantano solo le parti loro specificamente assegnate, e non, aggiungendosi al coro, l’intera messa. Benissimo Palazzi e la Simeoni, bene Korchak e benino Senderskaya, almeno alle mie orecchie. 

Dopo aver assistito in… religioso silenzio ai quasi 90 minuti dell’esecuzione, il pubblico del Rossini (non proprio esaurito, devo dire) ha tributato a tutti un autentico trionfo, con innumerevoli chiamate per solisti e direttori.

21 agosto, 2014

ROF XXXV live: Barbiere


Quarta ed ultima recita, ieri sera al Teatro Rossini (non proprio esaurito, ma illustrato dall’imponente presenza in sala di Jessica Pratt) del Barbiere di Siviglia, riproposto quest’anno in forma semi-scenica al posto della preventivata L’inganno felice. In pratica, una edizione aggiornata e un po’ più scenica di quella del 2011, dove Alberto Zedda aveva presentato la sua ultima edizione critica dell’Opera.

L’Accademia di Belle Arti di Urbino ha curato (praticamente a-gratis, a quanto pare) la realizzazione dello spettacolo, impegnandovi uno stuolo di allievi e docenti. Spettacolo godibile e simpatico, ricco di trovate interessanti e mai volgari, a dimostrazione che – applicando intelligenza ed entusiasmo – si possono ottenere buoni risultati anche senza tirare in ballo altisonanti (e altoremunerati…) nomi di registi. La scena in effetti c’è (orchestra regolarmente in buca) anche se ridotta al minimo; poi molte parti dello spettacolo hanno sede in platea o in alcuni palchi (ma questa non è certo una novità, il teatro di regìa ci ha abituato a questa prassi) anche se sono prevalentemente occupate da recitativi, quindi disturbano poco la musica; mimi e figuranti si aggiungono agli interpreti per movimentare l’azione, ma senza mai essere eccessivamente invadenti. Insomma, un risultato interessante e un esperimento riuscito, che magari merita di essere ripetuto.
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Sistro: chi era costui? E che c’entra col Barbiere di Rossini? Bene, lo si incontra per la prima volta quando l’orchestra attacca la cavatina d’esordio (Ecco ridente in cielo) di Lindoro; poi torna corposamente anche nel finale dell’atto primo (Mi par d’esser con la testa in un’orrida fucina) e infine accompagna il quintetto dell’atto secondo, a partire dall’imprecazione di Bartolo (Di rabbia, di sdegno):


Dalla notazione della partitura a stampa (questa è una riproduzione della Dover, presumibilmente basata sulla vecchia edizione critica di Zedda del 1969) si desume essere uno strumento a suono indeterminato. Strumento pare in uso fin dall’antichità (i soliti egizi…) probabilmente assimilabile ad una sonagliera, costituita da sbarrette metalliche con anelli infilati che produceva suono per scuotimento. Ma la cosa non è così semplice: intanto nelle esecuzioni moderne viene solitamente impiegato in sua vece il triangolo o magari il glockenspiel; poi nel manoscritto originale di Rossini la parte è notata in modo apparentemente strano: in posizioni diverse del rigo (come si trattasse di strumento a suono determinato) e con le stanghette a volte in alto a volte in basso.

Una quindicina d’anni fa il Maestro Simone Fermani ha compiuto su questo strumento delle ricerche e sperimentazioni (che ha riassunto in un articolo comparso nel 2006 sul Bollettino della Fondazione Rossini) arrivando addirittura a progettare e far costruire un modello di sistro rispondente (secondo lui) alle esigenze esecutive del compositore:

     
Come si vede, è un particolare triangolo sui cui due lati sono infilati degli anelli che, per scuotimento verticale, producono due suoni diversi: uno acuto e uno grave, corrispondenti (secondo Fermani) alla notazione rossiniana originale (con stanghetta in alto o in basso).

Orbene, dopo tutto questo tormentone vi chiederete: ma per questo Barbiere, che strumento è stato impiegato? Ecco, una delusione: un normalissimo triangolo (smile!
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Venendo a più seri argomenti… la prestazione dei musicisti mi è parsa di livello onorevole (confermando l’impressione avuta via-etere lo scorso lunedi). Devo dire che al pubblico deve essere parsa eccezionale, a giudicare dal calore di applausi, anche a scena aperta, e di bravo! che hanno accolto indistintamente tutti i protagonisti.

Spendo innanzitutto una parola per il Coro (maschile) SanCarlo di Pesaro di Salvatore Francavilla: sarà pure di natura amatoriale, ma insomma, la sua parte l’ha fatta più che dignitosamente. Bravi! Poi una particolare menzione per Carmen Santoro (al fortepiano per i recitativi) e una specialissima per il chitarrista che accompagnava Lindoro nelle sue esternazioni a Rosina (in buca, fra le viole, per la serenata e in scena per la canzone), Eugenio Della Chiara: il quale è un pesarese emigrato a Milano (dove ha studiato chitarra al Conservatorio) che insieme al prof. Reggiani dell’Università Cattolica collabora con laVerdi nella stesura dei programmi di sala e partecipando spesso alle conferenze introduttive ai concerti.

Giacomo Sagripanti (che ha diretto senza tenere la partitura sotto il naso) ha pure confermato le sue buone doti di concertatore, gestendo in modo assai equilibrato le risorse strumentali e tenendo sempre bene in pugno quelle vocali. L’orchestra ha risposto discretamente, anche se non sono mancate alcune incertezze qua e là.

Juan Francisco Gatell, alle mie orecchie perlomeno, ha confermato ciò che di buono era arrivato via-radio: vocina piccola ma penetrante e adatta al ruolo.

Chiara Amarù, dopo una partenza piuttosto incerta nella sua famosa cavatina, è stata un’apprezzabile Rosina, encomiabile anche sotto l’aspetto della… ricerca dei virtuosismi dove l’interprete (in opere come queste, mica certo in Wagner!) ha il diritto-dovere di prendere qualche iniziativa: peraltro non sempre le sue soluzioni mi hanno convinto, dal punto di vista, diciamo così, dell’estetica musicale.

Il Figaro di Florian Sempey continua a non convincermi appieno: come gigione è un gigante, come baritono… beh, dico che deve mangiar polenta ancora parecchio (smile!)

Alex Esposito è anche lui un Basilio scenicamente efficace, mentre lascia un pochino a desiderare nel canto; forse per evitare i FA acuti si pratica lo sconto di un tono intero sulla sua famosa aria: cantandola in DO anziché in RE (sulle parti degli orchestrali c’è una vistosa quanto inequivocabile freccia orientata verso il basso). La truffa, per così dire, non è certo una sua invenzione (ha illustri precedenti nella tradizione) e vede come complice Don Bartolo che, nel recitativo che precede immediatamente La calunnia, dopo il LA con cui Basilio ha chiuso la frase noi lo farem sloggiar da queste mura, invece di rispondere (E voi credete?) partendo dal SOL#, lo fa partendo dal FA#:


Da qui in poi le restanti 10 battute del recitativo sono abbassate di un tono, il che prepara il DO dell’aria che segue, al termine della quale Basilio riprende, senza dar troppo nell’orecchio, dal LA del successivo recitativo (Ah che ne dite).

E a proposito di Bartolo, soddisfacente per me la prestazione di Paolo Bordogna, che ha coniugato la robustezza della voce con la velocità folle degli scioglilingua che caratterizzano la sua aria principale (A un dottor della mia sorte) riuscendo a non… incespicare né a mangiarsi troppe note.

Felicia Bongiovanni ha onorato il ruolo di Berta spiccando nei concertati e proponendo dignitosamente la sua aria del vecchiotto. Onesta la prestazione di Andrea Vincenzo Bonsignore (Fiorello e Ufficiale).

Il maggiordomo Ambrogio era Alberto Pancrazi, che ha occupato la scena con la sua presenza... ingombrante (smile!) ma sempre impeccabile, pur senza mai cantare una sillaba.
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Alla fine, come detto, trionfo per tutti.

17 agosto, 2014

ROF XXXV live: Armida


Ieri, in una serata fresca dopo un pomeriggio addirittura autunnale, l’Adriatic Arena ha ospitato la terza rappresentazione di Armida, che domenica 10 aveva aperto - non proprio trionfalmente - questa edizione del ROF. Da anni non si vedevano tante poltrone vuote, in un parterre già smagrito di un paio di sezioni (più di 100 posti…): non è certo un buon segno. Dirò subito comunque che il pubblico ha accolto la recita con calore, se non proprio con entusiasmo (pare di essere alla Scala, dove le prime vengono spesso contestate e poi le recite successive rimettono le cose a posto): può anche darsi che nel frattempo la macchina si sia meglio rodata.     
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Armida è opera dal soggetto piuttosto abborracciato e dalla struttura almeno apparentemente… antiquata. Vi si trovano in abbondanza magia ed eventi preternaturali: bacchette magiche, draghi e carri volanti, orride boscaglie che si trasformano di punto in bianco in giardini incantati e in sontuosi palazzi, per poi ri-scomparire con la stessa facilità, spiritelli infernali che assumono sembianze di ninfe incantatrici… un po’ come nel barocco alla Händel, per dire. Ecco, che ad ’800 ormai ben avviato si proponessero nel teatro musicale ancora questi stereotipi del secolo precedente si spiega forse con il fatto che la piazza era quella di Napoli, non certo apertissima alle novità del romanticismo e che d’altra parte un marpione come l’impresario Barbaja non voleva certo inimicarsi.

Poi è un’opera praticamente priva di azione, dove l’unica scena movimentata riguarda una tenzone fra due cavalieri: ma trattasi non di una lotta di eroici nemici sul campo di battaglia, né di una sfida fra due pretendenti per stabilire chi debba godere dei favori della bella principessa di turno; no no, siamo di fronte ad una prosaica resa dei conti fra due commilitoni per questioni di avanzamento di carriera!

Opera chiaramente costruita – più dal compositore che dal librettista Schmidt - per l’esibizione delle qualità vocali dei cantanti: in primo luogo della grande Isabella Colbran, alla quale venne riservato l’unico ma centralissimo ruolo femminile del lavoro, circondata da ben 6 tenori, che salgono fino a 7 in una certa versione, o si riducono a… soli 5 in altre. Sì, perché, a parte Rinaldo che sopravvive ai tre atti, gli altri vanno e vengono in modo abbastanza scriteriato: Goffredo da Buglione ed il suo luogotenente Eustazio si dileguano alla fine del primo atto senza apparente giustificazione; Gernando se ne va via con loro, ma almeno lui con un valido motivo: viene fatto secco da Rinaldo! Carlo e Ubaldo compaiono solo nel terz’atto e ciò consente di risparmiare due tenori, accoppiando Goffredo a Ubaldo e Gernando a Carlo. (Ma in uno spartito per canto e pianoforte, edito da Breitkopf, Gernando muore canonicamente a fine del primo atto, per poi reincarnarsi… magicamente all’inizio del terzo, al posto del titolare Carlo).

Opera infine che include un balletto (in chiusura dell’atto centrale) di corpose dimensioni: minimo una decina di minuti, ampliabili a discrezione di direttore e coreografo fin quasi al doppio, semplicemente moltiplicando i da-capo.

Ebbene, è superfluo dire che se Armida non è finita nel totale dimenticatoio, ciò si deve alla grande musica del Gioachino, che guardava in direzione esattamente opposta a quella del libretto: non parleremo di capolavoro (per non trovarci poi a corto di attributi in altri casi) ma di certo siamo di fronte ad un fior fior di opera, dove Rossini continua ad applicare i suoi principi innovatori, già manifestati in anni precedenti (vedi fra l’altro proprio l’Aureliano, novità di questo ROF) anticipando addirittura certo Verdi (guarda caso per la parte musicale, a Napoli in occasione della prima qualcuno riesumò per il pesarese l’epiteto di tedeschino, e non certo in accezione affettuosa): grandi numeri di assieme, sui quali si stagliano le parti solistiche; recitativi sempre musicati; balletto inserito nel contesto e non, com’era consuetudine settecentesca, affidato a terzi; virtuosismi non lasciati ai vezzi degli interpreti, ma compiutamente delineati sulle rispettive potenzialità. Ecco, caso mai è la disponibilità sul mercato di interpreti adeguati a rendere ardua l’impresa di chi voglia rappresentare Armida.

E così vengo a questa riproposta del ROF, dove il ruolo principale è stato affidato a Carmen Romeu. Una scelta, per così dire, casalinga, essendo il soprano spagnolo un prodotto dell’Accademia pesarese, quindi pupilla del Maestro Zedda e quindi un po’ in famiglia da queste parti. Il che, intendiamoci, in linea di principio non sarebbe per nulla disdicevole, tutt’altro; a patto però che i risultati fossero perlomeno decorosi, se non proprio brillanti. Ahinoi, e ahilei, ciò non è (e lo ha dovuto riconoscere a denti stretti lo stesso Zedda dopo la prima) e anche ieri il soprano spagnolo – pur non apertamente contestato - ha confermato i suoi limiti: ottava bassa inudibile e acuti spesso sfocianti in urletti o stonature.

Degli otto personaggi maschili (concentrati su 5 interpreti) che circondano la protagonista chi ha convinto di più è Antonino Siragusa, un Rinaldo assai sicuro ed efficace e soprattutto dotato di voce chiara e squillante in tutta la gamma. Abbastanza al di sotto Dmitry Korchak (meglio come Carlo che come Gernando) discreto nelle mezze voci, ma in difficoltà negli acuti, sforzati e spesso calanti. Come pure Randall Bills, (Goffredo-Ubaldo): voce piccola e poco penetrante. Forse un filino meglio di lui l’Eustazio di Vassilis Kavayas. Carlo Lepore (Idraote e Astarotte) ha completato il cast in modo decoroso, pur in una parte non certo proibitiva: voce potente e bene impostata.

Ho trovato orchestra e coro migliorati rispetto al radio-ascolto di domenica scorsa: evidentemente una recita in più è servita a tutti. Bravi gli strumentisti al corno, violoncello e violino nelle parti solistiche, e l’ottavino davvero scintillante. Anche Carlo Rizzi mi è parso dare più spessore alla sua direzione. Quanto al lungo balletto che chiude l’atto secondo, l’Ensemble di danza (Compagnia Abbondanza-Bertoni) ne ha dato un’interpretazione moderna e sufficientemente gradevole. Insomma, complessivamente una prova dignitosa, che una protagonista più autorevole avrebbe ulteriormente illustrato.
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Luca Ronconi, che ha evidentemente l’esclusiva dal ROF per quest’opera, deve aver coniugato un sano minimalismo (il rischio di fare stupidaggini o pacchianate con opere come questa è grande) con il budget spartano del Festival, così lui e il suo team hanno preso come spunto il teatro dei pupi, che tradizionalmente si è servito dei personaggi della Gerusalemme liberata (o consimili) per farne lo sfondo alla messinscena. Nicchie prismatiche che occupano l’intera altezza della scena e in cui sono di volta in volta appesi i pupi di varie misure, oppure nelle quali trovano posto i protagonisti (la nuvola del second’atto). Da pupi sono anche vestiti i crociati, con tanto di elmi crinuti e corazze più romani che medievali. Armida invece sfoggia eleganti abiti da sera, nero e poi rosso fuoco. Completano la scena alcuni pannelli che traslano (come le nicchie) orizzontalmente a muovere un po’ lo spazio. Efficace la resa degli spiriti del male, vestiti da pipistrelli, come pipistrellone è il loro capo Astarotte (e – per simpatia! – anche lo sbifido Idraote del primo atto). La recitazione è pure essa… minimalista: gesti plastici e ieratici, come si addice ad un soggetto… barocco.

Tutto sommato, nulla di straordinario, nel bene e nel male, ma con il pregio di non aver, per così dire, disturbato la musica! Il che è già qualcosa. 

13 agosto, 2014

ROF XXXV: le prime alla radio (3)


C’è da dire che l’avvio di questa edizione del ROF ha avuto un po’ le caratteristiche di un proverbiale crescendo rossiniano: dopo una deludente Armida e un Barbiere nulla più che dignitoso, ecco ieri un Aureliano, al suo esordio al festival, accolto da un buon successo. E a dispetto dell’ipertrofica durata (ben più di 3 ore nette di musica!)

Will Crutchfield è l’artefice dell’impresa (parlo per ora dei suoni di Radio3, le immagini di cui è responsabile Martone andranno prima… viste): al musicologo-direttore yankee va innanzitutto riconosciuto il merito delle complicate ricerche compiute per arrivare ad un’edizione per quanto possibile appropriata (in assenza di fonti autografe) della partitura; poi la sensibilità esecutiva, evidente conseguenza di quegli approfonditi studi. Un esempio per tutti: l’introduzione della Sinfonia, che rispetto alla versione-Barbiere (udita la sera prima da Sagripanti) ha un passo solenne e serioso, e a piena ragione, poiché anticipa la scena sesta del second’atto, dove lo sconfitto Arsace vaga fra boschi e pascoli.

Nulla è stato risparmiato ai cantanti: recitativi e soprattutto i da-capo nelle arie principali. E i cantanti han risposto in modo positivo. Prima su tutti Jessica Pratt, una Zenobia convincente anche se non sempre perfetta, e insieme a lei l’Aureliano di Michael Spyres: i due hanno ripetuto il successo ottenuto qui un paio d’anni fa nel Ciro. Discreta anche la Lena Belkina nei panni di… Velluti (il castrato che fu il primo e paradigmatico Arsace) a dispetto di un timbro non proprio gradevole. Una buona prova hanno pure offerto Raffaella Lupinacci come Publia e Dimitri Pkhaladze come Gran Sacerdote; su onesti standard i comprimari Dempsey Rivera (Oraspe) Sergio Vitale (Licinio) e Raffaele Costantini (un pastore). Discreta, anche se con qualche incertezza, la prestazione del Coro bolognese di Andrea Faidutti. Encomiabile l’Orchestra Rossini, che ha retto benissimo il gravoso impegno.  

Per chiudere sulla copertura radiotelevisiva del Festival, ricordo che giovedi 14 RAI5 trasmetterà in differita l’Armida inaugurale e che Radio3 riproporrà on-demand (18-19-20) le tre prime.

12 agosto, 2014

ROF XXXV: le prime alla radio (2)


Nel programma preliminarissimo rilasciato sulla tradizionale cartolina del ROF in chiusura del Festival 2013 figurava – accanto ad Armida ed Aureliano -  L’inganno felice, che avrebbe dovuto riprendere la produzione di Vick del 1994. Evidentemente ragioni organizzative (magari di costo dell’allestimento) hanno poi indotto Mariotti&C a ripiegare su un titolo più collaudato e su una rappresentazione in forma semi-scenica.

Ecco quindi questo Barbiere, già eseguito in forma di concerto nel 2011 da Zedda, che per l’occasione aveva impiegato la sua nuova edizione critica, preparata in risposta a quella del 2008 di Gossett (emigrato presso Bärenreiter). Quest’anno sul podio c’è Giacomo Sagripanti (che tanto per distinguersi ha puntualmente cassato il minuscolo personaggio di Lisa, da Zedda pignolescamente riesumato), il coro è il SanCarlo di Pesaro (diretto da Salvatore Francavilla) e la gestione scenica dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, che prosegue quindi la sua collaborazione con il ROF.

Superstiti dal 2011 l’Orchestra del Comunale di Bologna e, fra le voci, il Conte di Juan Francisco Gatell. E proprio il tenore argentino mi è parso positivamente cresciuto rispetto a quella prova, già abbastanza confortante, di 3 anni orsono, superando di slancio anche gli ostacoli rappresentati dalla riapertura dei tagli di tradizione.

Discreta anche la prova di Chiara Amarù, che aveva lasciato un buon ricordo di sé un anno fa come Malcom ne La Donna del Lago. Sugli scudi i due bassi Paolo Bordogna e Alex Esposito, campione di scioglilingua il primo e convincente calunniatore il secondo. Molto applaudito il giovine Florian Sempey come Figaro, che personalmente non mi ha entusiasmato. Felicia Bongiovanni e Andrea Vincenzo Bonsignore completano dignitosamente il cast nei tre ruoli di contorno.

Sagripanti non mi è dispiaciuto, per la verve che ha impresso all’orchestra e a tutta la compagnia; onorevole la prestazione del Coro, che ha un ruolo non certo proibitivo.

Tutto sommato una serata abbastanza piacevole, che ha risollevato in parte le quotazioni del Festival, dopo la mezza delusione dell’Armida inaugurale.

11 agosto, 2014

ROF XXXV: le prime alla radio (1)

 

Un’apertura in tono minore. Così a Radio3 il commentatore stabile del ROF Giovanni Vitali ha sintetizzato l’esito della serata inaugurale del Festival, che ripresentava dopo 21 anni Armida. In effetti l’accoglienza del pubblico è parsa, a primo udito, piuttosto freddina: applausi quasi di cortesia dopo i numeri principali e alla conclusione, quasi con una gran fretta di andarsene. Al termine del second’atto si è udito anche qualche chiaro buh, chissà se indirizzato alla nuova messinscena di Ronconi (e/o in particolare ai balletti che chiudono quell’atto).    

Dissensi misti ad applausi per la protagonista Carmen Romeu, che a qualcuno presente 21 anni orsono avrà fatto rimpiangere un’allora giovane e rampante Renée Fleming. Il soprano spagnolo ha aperto il ROF 35 così come aveva chiuso il 34 (Elena ne La Donna del Lago): senza infamia e senza lode, a voler essere indulgenti.

Dei 4 tenori (due… sdoppiati) han fatto cose discrete Dmitry Korchak (Gernando-Carlo) e Antonino Siragusa (Rinaldo); ordinaria prestazione per gli altri due, Randall Bills (Goffredo-Ubaldo) e Vassilis Kavayas (Eustazio). Discreto il basso Carlo Lepore, pure lui sdoppiatosi nei non proibitivi ruoli di Idraote e Astarotte.

Di incolore routine mi è parsa la direzione di Carlo Rizzi, come pure la prestazione dell’Orchestra e del Coro di Bologna.

Insomma, una serata che di certo non sembra autorizzare le richieste di risorse che il patron Mariotti reclama, forte di dati (oggettivi?) sull’indotto che il ROF porterebbe all’economia della provincia.


05 agosto, 2014

Arriva il ROF 35!

 

Domenica 10 agosto apre l’edizione XXXV del Rossini Opera Festival.

 

A rompere il ghiaccio – nel ligneo teatro ricavato dentro l’enorme conchiglia dell’Adriatic Arena - una nuova produzione di Armida. Poi - al Teatro Rossini - Il barbiere (lunedi 11, in forma semiscenica) e quindi un nuovo arrivo, una delle ormai pochissime opere del catalogo rossiniano ancora non apparse al ROF: Aureliano in Palmira (martedi 12).


Il consueto appuntamento di chiusura del Festival (quest’anno di… pre-chiusura, il 21 alle 20:30, con diffusione in Piazza del Popolo) diretto dal venerabile Alberto Zedda, avrà come oggetto la Petite Messe Solennelle (versione con orchestra).  

Radio3, come è ormai tradizione, irradierà in diretta, sempre alle 20, le prime delle tre opere del cartellone principale.  
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La tabellina che segue, desunta dall’esaustivo archivio online delle edizioni, presenta le opere (come catalogate dalla Fondazione Rossini, esclusi quindi pastiche vari o musiche di scena) in ordine decrescente di presenza nelle 35 stagioni del ROF. Come si vede, guida la classifica La scala di seta con 6 presenze:


01 agosto, 2014

Bayreuth: conclusa la settimana santa


Götterdämmerung ha chiuso la serie delle 7 prime del Festival 2014. In linea con le precedenti giornate e anche in linea (visto che il cast era lo stesso, tranne Alberich) con le precedenti edizioni: mediocrità abbastanza diffusa, con punte di piena insufficienza, prima fra le quali il protagonista. Lance Ryan – che è tutto sommato ancora giovane, 43 anni – sembra aver perso la capacità di cantare: 4-5 anni fa il suo Siegfried era più che promettente (sentito dal vivo a Firenze), adesso è praticamente inascoltabile, fra perenne carenza di intonazione, urla sguaiate e vibrato esasperante (oggi ha aggiunto anche la caricatura dell’Uccellino, una cosa invero lunatica).

Gli altri fan ciò che sanno, cioè il minimo sindacale. E non bastano orchestra e coro a sollevare il livello della recita: stasera persino il primo corno ha steccato l’assolo nel Rheinfahrt (!) Petrenko sempre abbastanza spedito (110-65-75 minuti) e pulito (per dire: nessuna cesura à-la-Thielemann prima delle fatidiche ultime 7 battute!) ma anche lui più di tanto non può (sarà un caso che si mormori che voglia abbandonare questo Ring a fine Festival?)
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A questo punto, date le circostanze, non so se ringraziare o… maledire Radio Clásica de España per aver diffuso in diretta tutte le serate inaugurali. Ad ogni buon conto segnalo - per chi si è perso qualcosa in questi giorni e per gli impenitenti masochisti (smile!) che ancora non ne hanno avuto abbastanza - che la Bayerischer Rundfunk metterà in onda in agosto (sempre alle ore 18:05) la registrazione delle 4 prime non diffuse in diretta:

martedi 5: Walküre (del 28/7)
martedi 12: Siegfried (del 30/7)
sabato 16: Götterdämmerung (del 1/8)
martedi 19: Lohengrin (del 31/7)