bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

31 marzo, 2014

La Cambiale onorata a ReggioE.


Il Teatro Valli di ReggioE. ha proposto in questo week-end la rossiniana Cambiale di matrimonio, in un nuovo allestimento già presentato circa un mese fa al Regio di Parma.

Si tratta del primo grande successo nella lunga-breve carriera del sommo pesarese, allora nemmeno 18enne, che gli aprì le porte per i trionfi che arrivarono a ripetizione, sia nel genere farsa-commedia che in quello dell’opera-seria.

Già dalle prime battute dell’Ouverture – composta precedentemente alla farsa, come esercizio di Liceo - si capisce il perché del nomignolo affibbiato a Rossini di tedeschino: un dreimalige Akkord di MIb maggiore che par venire direttamente dalla Zauberflöte:

Ma c’è di più. Si afferma sempre che i primi stilemi musicali autenticamente romantici siano i richiami dei corni con i quali Weber apre le Ouverture del Freischütz e poi dell’Oberon. Beh, Rossini – forse senza nemmeno sapere cosa fosse il romanticismo… - aveva fatto qualcosa di analogo con più di 10 anni di anticipo!


Che la stoffa del Rossini maturo fosse già ben distinguibile in questa opera d’esordio lo constatiamo da un inciso che ritroveremo qualche anno più tardi nel Barbiere (uno dei tanti auto-imprestiti che l’Autore si concederà con gran disinvoltura). Si tratta di un frammento dell’aria di Fanny, che – abbassato di un tono, dal LA al SOL, per trasportarlo dalla voce di soprano a quella di mezzo - ritroveremo nel canto di Rosina:

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Ma tutta la musica della Cambiale mostra una freschezza di ispirazione, una geniale inventiva e una maturità di concezione che lasciano sempre sbalorditi. E il merito di Francesco Ciluffo è di averli fatti emergere al meglio, guidando con sobrietà ed equilibrio l’Orchestra del Conservatorio A. Boito di Parma, fatta di giovani promettenti e affiatatissimi.

Così come bravi, oltre che promettenti, sono stati gli interpreti dell’opera, allievi delle classi di canto dello stesso Conservatorio.

Su tutti i tre bassi: il sir Tobia Mill di Marco Granata (che è anche provetto organista), lo Slook di Hideya Masuhara e il Norton di Adriano Gramigni. Discreto anche Lorenzo Caltagirone  (Edoardo Milfort, nella cui parte ha sostituito all’ultimo momento il suo… sostituto, Yasushi Watanabe).

Un filino sotto le due voci femminili (Nao Yokomae come Fanny e Nozomi Kato come Clarina) vocine magari adatte alle parti, ma dal timbro un tantino metallico e dagli acuti non sempre puliti.

Comunque, applausi a scena aperta per tutti dopo ciascun numero; bravo Riccardo Mascia che al fortepiano ha impreziosito anche i recitativi. Ma in generale, date le circostanze, si è avuta una prova in più del fatto che per gustare della buona musica e del buon canto non c’è proprio bisogno del cosiddetto star-system!
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Naturalmente personaggi e vicenda che costituiscono il soggetto della farsa sono… farseschi: caricature di una certa borghesia neo-ricca quanto ignorante e retriva. Mill è il classico tipo del commerciante import-export della Gran Bretagna imperiale: probabilmente importa seta, spezie e thé dalle colonie orientali per poi rivenderli con enormi margini ai clienti delle colonie… occidentali. E, pur di far affari, non esita a vendere anche la figlia! Certo che anche Slook è un tipo poco coerente, come minimo: prima ordina per posta, a 6000Km di distanza, una moglie, neanche fosse una bambola gonfiabile; poi però si meraviglia che Mill, per rifilargliela, abbia trattato la figlia, appunto, alla stregua di una bambola gonfiabile!

Tutto ciò viene piuttosto edulcorato dalla messinscena di Andrea Cigni (coadiuvato da Dario Gessati per le scene, Valeria Donata Bettella per i costumi e Fiammetta Baldiserri alle luci): un allestimento sicuramente gustoso, ambientato proprio qui nelle terre del parmigiano, del culatello e del lambrusco, posti dove si lavora nella sana economia del primario, non in quella (spesso puramente parassitaria) del cosiddetto terziario…  Così Mill viene quasi nobilitato, vestendo i panni di un laborioso imprenditore lattiero-caseario, che però non si capisce bene perché riceva dal canadese Slook quello strano ordinativo che nulla ha a che vedere con vacche e forme di formaggio! E per di più decida di… onorarlo a spese della figlia.

Ma siamo in una farsa e la plausibilità della vicenda è proprio l’ultima cosa che ci deve interessare. Così diventa divertente anche l’autentico omaggio che, alla fine dello spettacolo, Cigni fa all’ormai antico (ma mai invecchiato!) Rinaldo di Pizzi, qui di casa fin dal remoto 1985, presentandoci i quattro protagonisti appollaiati su imponenti vacche di cartapesta!
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Pieno successo per tutti, con un solo grande rammarico: il Valli semivuoto (a dispetto di prezzi invero popolari) al quale Alessandro Baricco, prima dell’inizio, ha indirizzato alcune interessanti riflessioni sul teatro di 200 anni fa.

28 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°27

 

Un gradito revival per laVerdi: a due anni e mezzo di distanza da quel settembre 2011 alla Scala, ecco riproposto qui in Auditorium un caposaldo della musica occidentale: il War Requiem di Benjamin Britten, come allora diretto da Zhang Xian.

Diversi i tre solisti: il soprano Othalie Graham, che canta il Requiem ecclesiastico, e Mirko Guadagnini, tenore e Joseph Lattanzi, baritono, che cantano i versi di Owen; ovviamente confermati i cori di Erina Gambarini e Maria Teresa Tramontin e i Direttori delle due orchestre (Xian e Jais).

Rispetto all’esibizione scaligera ci sono alcune differenze… logistiche, oltre che di ruoli: l’orchestrina da camera qui è disposta all’estrema sinistra rispetto a chi guarda ed è guidata da Santaniello, che ha scambiato il suo posto con Dellingshausen. I piccoli della Tramontin (alla Scala avevano avuto l’onore del Palco Reale!) sono qui dislocati nelle prime file della galleria: soluzione ideale per gli spettatori della parte avanzata della platea, non so quanto efficace per chi occupa le file retrostanti, proprio sotto la galleria medesima…

Comunque sia, l’ascolto di quest’opera lascia sempre una grande impressione, anche perché essa è di estrema attualità, in un mondo – il nostro - dove si continua a soffrire a dispetto dell’assenza di conflitti globali come quelli che ispirarono i versi di Owen e la musica di Britten. Un musicista spesso irriso, che a noi occidentali in questo Requiem spiegò - proprio con gli strumenti più elementari (quasi scolastici, direi) della nostra musica, quella basata sul diatonismo e sul temperamento equabile – la differenza fra lo stato di guerra e quello di pace (in qualunque accezione vogliamo considerare questi temini): il diabolico tritono che si trasfigura nell’accordo perfetto maggiore!

24 marzo, 2014

A Torino fra tragedia e commedia


Il Regio torinese ha in programma in questi giorni un dittico bifronte, serio-leggero. Resterà famoso nella storia quello che fu programmato alla Fenice in occasione della prima di Elektra (1938) allorquando alla tragedia straussiana si fece seguire Il signor Bruschino (!) Anche qui – cosa del resto già fatta alla Scala proprio 10 anni fa - abbiamo l’accoppiata  tragedia + commedia, e così la par-condicio è salva e tutti vanno a casa soddisfatti, anche se a Torino la tragedia viene (grazie al regista) privata della sua genuina conclusione… idilliaca, come vedremo meglio.  

Una tragedia fiorentina (1917, da Wilde) precede di circa un anno lo Schicchi (1918, testo di Forzano) e con esso condivide l’ambientazione gigliata. Poi però, a parte le circostanze belliche in cui furono composte e le comuni viste sull’Arno, le due opere hanno assai poco in comune. E non solo per i soggetti alquanto divergenti, ma proprio per i contenuti squisitamente musicali: tanto maledettamente salace e genuinamente italico quello di Puccini, quanto cerebralmente e incorreggibilmente crucco (non è un’offesa, occhio!) quello di von Zemlinsky

Il regista Vittorio Borrelli ha pensato bene di risparmiare… sull’affitto collocando le due vicende nello stesso caseggiato, più o meno trasportandole all’epoca in cui le opere videro la luce. Il che tutto sommato non nuoce, né scandalizza più di tanto.

Quanto a Stefan Anton Reck, la sua origine (anagrafica e musicale) teutonica non gli impedisce di gestire con la dovuta spigliatezza anche la brillante partitura pucciniana.
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Eccoci quindi, in un teatro non propriamente affollatissimo, alla Tragedia fiorentina. Caspita come si corre veloci oggi, ha commentato il mio vicino di posto sul treno che ci portava a Torino: su Renzi han già fatto anche un’opera lirica… (tera-smile!)

Beh, va detto che della tragedia c’è effettivamente un ingrediente indiscusso e indiscutibile: un omicidio per strangolamento in piena regola. Però tutto il resto della vicenda ha davvero dell’incredibile e del gratuito. Andiamo con ordine.

Siamo nella Firenze del ‘500 e un commerciante rientra a casa prima del previsto trovandovi la sua mogliettina in compagnia piuttosto sospetta di un giovane. Fin qui sembra Hunding che torna da Sieglinde e vi scopre Siegmund: qualche vago sospetto del padrone di casa viene mascherato da affettate profferte di ospitalità, soprattutto dopo che il giovane intruso si è manifestato per il figlio del Duca della città.

Dopo aver cercato (o fatto finta) di vendergli un po’ della sua mercanzia (stoffe e abiti alla moda) il commerciante si dice pronto ad offrire all’ospite qualunque cosa gli aggradi. E qui ecco il primo fatto poco plausibile: il giovane nobile chiede con tutta naturalezza di avere la donna (sic!) Ma non basta, perché il marito, invece di dargli la risposta più ovvia, cerca semplicemente di dissuaderlo minimizzando le qualità della moglie (la bellezza le è rifiutata… arriverà a dire di lei!)

La quale moglie si lascia sentire dal marito mentre dichiara al giovane di volerlo morto! Poi, con il commerciante in giro per la casa, i due amanti si abbracciano e si baciano sulla bocca come nulla fosse. E come nulla fosse il duchino dice poi che si è fatto tardi e fa per andarsene a casa non senza aver ottenuto dalla donna un appuntamento galante per il mattino successivo (!)

Portandogli cappa e spada il commerciante si ricorda di possedere a sua volta un brando arrugginito e invita il giovane a incrociare qualche colpo. La cosa da scherzosa diventa seria: dopo essere stato ferito di striscio, il padrone di casa disarma l’ospite, poi a mani nude lo mette sotto e infine lo strangola senza misericordia.

A nulla valgono le implorazioni del giovane e la donna per parte sua ben si guarda dall’intervenire, come potrebbe, per difenderlo dalla ferocia del marito. Passato il duchino a miglior vita, il commerciante si volge verso la moglie per completare l’opera di fustigazione dei costumi.

E qui la tragedia si muta in… farsa. La donna sbotta estasiata: caro, perché non mi avevi mai detto di essere così forte? E l’uomo, già pronto a strozzarla, trasalisce e risponde: toh, e tu perché non mi hai mai detto di esser così bella? E l’opera si chiude con i due che si baciano sulla bocca… (roba da chiodi!)

In molti si sono naturalmente cimentati nel cercare di spiegare cosa di criptico ci può esser sotto ad una simile strampalata conclusione. Così mi ci provo anch’io, tanto per passare il tempo. Lo spunto me lo ha dato quella specie di monologo che il padrone di casa recita a metà circa dell’atto unico, dopo aver parlato di affari e di politica con il suo (anzi… di sua moglie) ospite, piuttosto disinteressato a tali argomenti, per la verità. Dice infatti: Dunque, tutto quanto il vasto mondo è chiuso fra le quattro mura di questa stanza, e solo con tre anime ad abitarvi?

Personalmente mi stuzzica sempre immaginare dietro questi triangoli delle allegorie di grandi fenomeni di carattere storico-politico-sociale. Nella fattispecie ipotizzo la donna di casa essere la classe operaia che, sfruttata dalla borghesia capitalista, si concede all’aristocrazia, che obiettivamente esercita ancora su di lei un certo fascino… Poi però, nel momento in cui la borghesia soffoca (letteralmente!) la nobiltà, ecco che alla classe operaia non resta che riconoscerne la forza e lo strapotere e (fingere di?) buttarsi fra le sue braccia. Beh, erano fenomeni sotto gli occhi di Wilde come poi di Zemlinsky, o no?

Ecco, invece pare che il regista non abbia potuto sopportare questa pagliacciata (una tragedia è una tragedia, vivaddio!) e quindi ha mandato Wilde e Zemlinsky a quel paese e la fedifraga all’altro mondo, come del resto si merita! Beh, per essere la prima rappresentazione in assoluto al Regio, dopo quasi un secolo di vita, come rispetto dell’originale non c’è malaccio (smile!) E poi tutto ciò alle mie orecchie contraddice abbastanza la chiusa musicale di Zemlinsky, con quel celestiale diminuendo in LAb maggiore dell’intera orchestra, che sa poco di Tod e tanto di Verklärung (giusto per citare il compositore che, con il rivale-in-amore Mahler, più ha lasciato tracce nella musica del nostro).

Mattatore è stato ovviamente il beniamino di casa, Mark S. Doss, che ha sostenuto da par suo una parte piuttosto impervia e faticosa, anche fisicamente. Discreta la prova di Zoran Todorovich e rimarchevole, soprattutto per la… ehm, presenza scenica, quella di Ángeles Blancas Gulín. Insomma, per il piuttosto misconosciuto Zemlinsky un debutto torinese più che accettabile.
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Lo Schicchi è una vera perla, non lo si scopre da oggi, e se il cast è all’altezza non può non piacere e divertire. Con l’intelligente e sobria regia di Borrelli e un’orchestra ben guidata da Reck, chi si è distinto su tutti è Francesco Meli, ancora una volta confermatosi tenore di razza. Con lui Alessandro Corbelli, un protagonista efficacissimo e poi la Serena Gamberoni cui non è mancato l’applauso a scena aperta, di prammatica dopo il Babbino.

Ma bene han fatto tutti gli altri. Alla fine, quando Schicchi recita la frase conclusiva e batte le mani… ecco che è scattato inevitabilmente l’applauso del pubblico, che ha coperto le ultime nove, esilaranti battute in SOLb di Puccini. Ma va bene anche così…

22 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°26

 

Il Direttore musicale (quota rosa) de laVerdi riappare sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto mozartiano, con spruzzatina del Gluck strumentale. L’occasione è buona – e non sarà l’ultima - anche per portare in primo piano (e se lo meritano proprio) un paio di prime parti dell’Orchestra

Si parte con la celeberrima Eine kleine Nachtmusik, ascoltata qui più di 3 anni orsono dall’astro emergente na PatalungQuesta volta però di direttore se ne fa a meno: Nicolai Freiherr von Dellingshausen guida con l’archetto del suo violino i 21 compagni in un’esecuzione proprio come dovevano essere quelle dei tempi del Teofilo!
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Poi ecco Andrea Magnani, fagotto principale de laVerdi, esibirsi nel K191. Uno dei gioiellini del Mozart giovane che, come ricorda lo stesso Magnani, riprenderà l’incipit dell’Andante nella famosa cavatina della Contessa all’inizio del second’atto del Figaro. (Ma sono anche le stesse quattro note con cui tale Wagner farà iniziare il Liebestod…)

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Il Concerto si apre con un Allegro in SIb, che ha una struttura vagamente di forma-sonata. È in pratica costruito da Mozart componendo sapientemente - come fossero pezzi di un ideale meccano musicale - alcuni motivi di base:


Abbiamo un’Introduzione orchestrale, abbastanza lunga, interamente in SIb, che espone il motivo A e successivamente il motivo B e poi il C, inframmezzati da qualche battuta di carattere marziale. A questo punto entra il solista che espone il motivo A (di fatto il primo tema) seguito da un breve virtuosismo e chiuso dall’orchestra sulla tonica. Poi attacca il motivo D (una specie di secondo tema) nella tonalità dominante di FA maggiore; ad esso segue subito il motivo E, sempre in FA maggiore, che poi si sviluppa (anche con soggetti secondari) con grandi volate di semicrome fino alla conclusione del solista sul FA acuto. L’orchestra chiude l’esposizione riprendendo (sempre sulla dominante FA) il motivo C.

Ora il solista introduce il motivo F, dapprima in DO minore, poi in SIb, che rappresenta quasi una specie di sviluppo, assai breve e basato su virtuosismi del fagotto supportati da svolazzi degli archi. L’orchestra inizia quella che possiamo chiamare ripresa con le prime quattro battute del motivo A (SIb) subito reiterate dal solista, che vi fa seguire il secondo tema (motivo D) ma nella tonalità plagale (MIb). 

Adesso Mozart ci regala un’autentica perla del suo genio: riprende il motivo E (originariamente in FA) e – senza minimamente trasporlo, si badi bene, ma variandone quasi impercettibilmente la struttura e l’armonizzazione – lo fa calzare a pennello alla tonalità di SIb, come vogliono i sacri canoni! SIb che viene mantenuto con il motivo B che ricompare nel fagotto e porta poi – dopo un tutti orchestrale che ripropone il motivo C - alla classica sospensione per la cadenza. Cadenza che Mozart non ha scritto e che quindi sta al solista di scegliere o inventarsi. Da qui la coda che chiude il movimento.   

Nell’Andante, ma adagio (FA maggiore) Mozart si diverte, più di quanto già fatto nel primo movimento, a far eseguire al solista siderali intervalli sonori (anche di 19ma!) quasi a voler fare pubblicità alle prerogative dello strumento. Ma senza dimenticare la dolcezza della melodia che caratterizza l’intero brano.

Il Finale è un Rondo (Menuetto, 3/4) che presenta una struttura abbastanza regolare: A-B-A-C-A-D-A-A’, i cui mattoncini di base sono i motivi di seguito elencati:

Il ritornello A (in SIb maggiore) è costituito da una sezione principale di 8 battute (a) che ritorna sempre e da una di 12 battute (a’+a) che ritorna soltanto nell’ultima ricorrenza, l’unica suonata dal solista, mentre tutte le altre sono presentate dalla sola orchestra. Il fagotto è invece protagonista di tutti gli episodi interni. B si compone di 3 motivi (b+b’+b”) che appaiono come variazioni del ritornello, rispettivamente in SIb maggiore, FA maggiore e ancora SIb. C consta di due motivi (c e c’) nella relativa SOL minore. D è a sua volta scindibile in due motivi (d e d’) in SIb e FA. Dopo che A è stato presentato e ulteriormente sviluppato dal solista, una variante di A (A’) comprende una breve cadenza che chiude il Rondo.
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Magnani mostra di padroneggiare perfettamente questa parte assai ostica, di cui ci dà proprio un’interpretazione… scoppiettante, meritandosi gli scroscianti applausi del suo pubblico (e vedremo che per lui non sarà finita qui…) 
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Dopo l’intervallo, ecco l’altro moschettiere che viene al proscenio da solista: è Max Crepaldi, che si cimenta con un’opera di un autore che aveva composto prevalentemente… opere! Si tratta del Concerto per flauto di Gluck. Di cui è però addirittura incerta la paternità, oltre che l’anno di composizione. Fu Hermann Scherchen ad arrangiarne un’edizione e a farne una prima registrazione 1l 21 agosto 1941 a Winterthur, con la locale Orchestra Municipale e Willi Urfer al flauto.

Il concerto ha una struttura e un’impaginazione assai semplici, tanto da far pensare che non sia di Gluck o quanto meno non del 1762 (per dire, l’anno dell’Orfeo!) ma assai più datato, magari un giovanile esercizio di carattere scolastico. Si tratta di tre classici movimenti: Allegro non molto (SOL maggiore, 3/4), Adagio (RE maggiore, 4/4) e Allegro comodo (SOL maggiore, 3/4). Ciascun movimento dura poco meno o più di 5 minuti ed è di fatto monotematico, con la classica modulazione alla dominante o al massimo alla relativa minore. Per conseguenza si porta dietro anche una certa… monotonia che rischia non dico di annoiare, ma insomma di provocare nell’ascoltatore dei cali di tensione.

L’organico dell’accompagnamento è costituito da quattro parti del quintetto di archi (v1-v2-va-vc+cb) e da corni (che accompagnano prevalentemente muovendosi per terze e – nel finale – seste e che peraltro tacciono nel movimento centrale).    
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Il tema del primo movimento, dopo essere stato anticipato da archi e corni, viene esposto dal solista nella sua prima sezione, che chiude sulla sopratonica LA. Essa diviene dominante del RE (a sua volta dominante di SOL) sul quale il flauto espone la seconda sezione del tema:

Tema che viene ora riproposto dall’orchestra nella tonalità dominante, prima che il flauto rientri con una variante in MI minore (relativa del SOL di impianto) che riporta poi alla tonalità di base. Orchestra prima e flauto poi riespongono il tema in SOL fino ad arrivare alla breve cadenza, dopo la quale l’orchestra porta il movimento alla conclusione.

Anche l’Adagio si presenta più o meno nello stesso modo: il tema (RE maggiore) viene esposto prima dagli archi, cui poi subentra il solista, che lo reitera facendolo virare alla dominante LA maggiore:


In questa tonalità viene ripreso dagli archi, prima che il flauto lo sviluppi, riportandolo a RE maggiore. Anche qui una cadenza del solista conduce gli archi alla chiusura. 

Chi vuol scommettere che anche la struttura dell’Allegro comodo ricalca più o meno quella degli altri due movimenti? Scommessa vinta: partono archi e corni con il tema in SOL maggiore, ripreso dal solista che lo sviluppa verso la dominante RE:


È il solista stesso che reitera il tema sulla dominante, fino a modulare a SOL minore, per poi riprendere canonicamenie il SOL maggiore. Si arriva quindi alla pausa per la cadenza di prammatica, assai breve, che conduce alla chiusura riservata ad archi e corni.
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Beh, credo si sia capito trattarsi di una cosuccia simpatica e non molto di più. Certo, per il solista è pur sempre un’occasione per mettere in luce le proprie qualità. E devo dire che Crepaldi l’ha saputa sfruttare in pieno!

Così, per festeggiare degnamente la serata, il primo flauto si riporta in scena anche Magnani e insieme ci offrono come bis una trascrizione dal clavicembalo di Händel, che dà modo ad entrambi di riproporre le loro altissime qualità tecniche e di fare ancora il pieno di applausi.   
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Chiude la serata la K543, terz’ultima delle sinfonie del grande salisburghese. Le ultime esecuzioni qui risalivano a poco più di due e poco meno di quattro anni orsono, offerteci entrambe dal venerabile Helmuth Rilling.

Xian è tutta un’altra pasta (poi ciascuno può preferire un approccio ad un altro…) e ne cava un’interpretazione nervosa e senza… ritegno (!) Dalle tremende mazzate chieste alla Viviana fin dall'Introduzione, passando per i pianissimo degli archi e ancora per esplosioni improvvise di tutta l'orchestra che - parlando di Mahler, mica di Mozart - Adorno chiamava irruzioni! E ha pure fatto - cosa per lei inconsueta - i ritornelli di prammatica.

Insomma, una simpatica serata che ci ha ridato un po' del calore toltoci dalla leggera pioggerella arrivata nel frattempo.

18 marzo, 2014

L’Orchestraverdi ancora alla Scala contro i tumori

 

Ieri sera laVerdi è stata ospite del Piermarini per un concerto a sostegno delle benemerite attività della LILT.

Il programma ricalcava in parte quello dell’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra, ed anche i protagonisti erano gli stessi: Wayne Marshall ed Emanuele Arciuli. La prima parte della serata era infatti occupata dal Concerto di Grieg. Le tre repliche all’Auditorium dei giorni immediatamente precedenti devono aver fatto bene a tutti, così ieri abbiamo assistito ad una performance di alto livello, sia dal lato solistico (ma qui Arciuli aveva poco da migliorare…) che da quello del ripieno orchestrale. Che mi è parso assai più equilibrato, quanto meno rispetto alla prima di giovedì scorso in Largo Mahler.

A meno che la differenza non l’abbia fatta l’enorme spazio del teatro, che tende ad ovattare i suoni, rispetto all’acustica fortemente amplificatrice dell’Auditorium. Fatto sta che mi è parso di udire un Grieg più nordico e… algido di quello di giovedi scorso. E chissà che quest’atmosfera più fredda non abbia contagiato anche il pubblico, che dopo il primo ritorno sul palco dei due protagonisti si è subito azzittito, al che Luca Santaniello non ha potuto far altro che alzarsi e salutare, privandoci di un possibile bis.  
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Marshall ha poi proposto il suo amato Gershwin, ad iniziare dalla simpatica Ouverture da Of Thee I SingSono meno di 5 minuti di musica allegra e scanzonata, proprio come irridente è l’intero musical (del 1931) che satireggia il modo yankee di far politica, ma con una morale positiva (l’amore trionfa su ogni altro interesse e lobby). 
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Ha chiuso degnamente la serata An American in Paris. Riporto qui alcune note di presentazione, scritte quasi 3 anni orsono, allorquando fu Zhang Xian ad eseguirlo in Auditorium.
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Scritto nel 1928 dopo un viaggio nella capitale francese, questo balletto rapsodico subito si presenta con baldanza mista a spensieratezza:

È il turista che se ne va a spasso per la città, col naso all’insù e le orecchie tese. Parigi è una città dal traffico già caotico, e non mancano quindi automobili e taxi che strombazzano allegramente. In mezzo al trambusto arrivano anche le note di una filastrocca (Che cosa importa a me, se non son bella) forse nota altrettanto bene in Italia che a Parigi:
Ora, stanco per la lunga camminata, l’americano si riposa un poco e inevitabilmente sogna il suo paese, e il blues in primo luogo:


(Si noti la prescrizione di coprire la campana della trombetta con una guaina di feltro.?

Questo è il motivo che rimane poi al centro del brano, e che pure lo concluderà. Accanto ad esso però arriva anche un ricordo allegro, il charleston della Louisiana:

Un’ultima veloce scorribanda per le strade della Ville lumière culmina nel Grandioso dove corno inglese, clarinetti e sax contralto ribadiscono per l’ultima volta il tema americano, prima del poderoso accordo di FA maggiore che chiude il brano.
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Alla fine il pubblico si era evidentemente riscaldato e ha quasi preteso il bis: che è arrivato ed è stato poi ancora… bissato, protagonisti la tromba di Caruana e soprattutto il clarinetto di Ghiazza. Un bel regalo per uno come me che ha un quadrupede da custodire… Qui lo ascoltiamo dai PROMS e così scopriamo anche da dove è uscito fuori il nostro attuale PM (mega-smile!)

14 marzo, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°25

 

Riecco il simpatico Wayne Marshall sul podio dell’Auditorium per dirigervi un interessante programma (attenzione: interessante non significa automaticamente di alto livello…)       

Che si apre con una composizione giovanile di Richard Strauss: la Bläserserenade op.7 (per strumenti a fiato). Così la definì onestamente l’Autore nel 1909, 28 anni dopo averla composta: Null’altro se non il decoroso lavoro di uno studente di Conservatorio.  

Ma il sommo Quirino Principe non la pensa così. Ecco come analizza questo lavoro (da: Strauss – La musica nello specchio dell’eros):

Il piccolo prodigio venne alla luce 1'11 novembre 1881, quando Richard finì di comporre la Serenade in mi bemolle maggiore op. 7 (TFV 106) per 13 strumenti a fiato: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, 4 corni (di cui il primo e il secondo in mi bemolle, il terzo e il quarto in si bemolle), 2 fagotti, controfagotto (o basso tuba). I corni in si bemolle sono bassi. In alternativa al controfagotto o al basso tuba, la partitura reca l'indicazione: Contrabaß . Per la prima volta, egli si cimentava in una composizione per insieme di fiati (legni e ottoni), e anche per questo l'autunno 1881 segna un momento inventivo di assoluta novità, anzi, apre un nuovo solco: in tutta la sua vita, Strauss ideò soltanto quattro lavori con un simile organico (altra cosa sono le cinque composizioni per ottoni e timpani), e, con ammirevole simmetria, due quasi al principio (1881 e 1884) e due quasi alla fine (1943 e 1944-1945). Che egli fosse stato preso da un imprevedibile interesse per il "guter Klang" di un insieme di fiati è testimoniato anche da una sua fatica inversa sotto l'aspetto tecnico, quasi contemporanea alla Serenade: la riduzione per pianoforte a 4 mani del Nonetto in fa maggiore di Franz Lachner (AV 183, TFV 108).
Non c'è dubbio: in senso strettamente tecnico, quella è la direzione che orienta lo sguardo del giovane compositore. È un suono nitidamente disegnato in lavori di buona fattura, alcuni autentici capolavori purché dotati di libertà visionaria. In quell'ambito esistono sicuri punti di riferimento, a Richard certo non ignoti: da prodotti abili e di modesta inventiva, come lo stesso Nonetto di Lachner o l'analogo Nonetto op. 139 di Rheinberger, a esiti più vibranti come la Serenata op. 44 di Dvorak, su su fino a un miracolo solare qual è la Serenata in re maggiore op. 11 di Brahms, nota agli ascoltatori tedeschi fin dal 1859. In particolare, il primo Minuetto della composizione brahmsiana si configura come una delle possibili premesse del nuovo suono straussiano e dell'invenzione tematica in tutta la sua leggiadra vitalità.
Il nuovo suono si presenta levigato, spoglio di eloquenza: nessun grande gesto. Servendoci del modello brahmsiano per vedere controluce le divergenze insieme con le affinità, leggiamo nella partitura della Serenade un primo segreto di fabbricazione della musica straussiana: l'assenza assoluta della cosiddetta "melodia popolare" o del cosiddetto stilema armonico popolare o di tutto ciò che popolare non è ma che abilmente, come spesso accade in Brahms, è tagliato nella sua morfologia come se lo fosse. La Serenade è bitematica, in un tempo solo (Andante) articolato in sezioni con sfumature di movimento che attenuano ogni contrasto: esposizione del primo tema (btt. 1-24), breve ponte modulante (btt. 25-30, dalla lettera A), secondo tema (più animato, btt. 31-60), una parte centrale che drammatizza elementi del secondo tema (btt. 61-118) e in cui un'ulteriore drammatizzazione comprende le battute 89-111 (dal più animato al Tempo I, in cui si ritorna alla serenità iniziale), e infine la ripresa (btt. 119-162) e la coda (btt, 163-173).
La prima esposizione è costruita quasi sul nulla, e arricchita da esigue differenze nell'uso e nella ricomparsa delle idee. Questo secondo carattere s'impone anche all'esposizione del secondo tema, che è invece plastica e di forte rilievo: anche in essa il discorso procede e si dialettizza secondo varianti minime. Una melodia discendente parte dalla mediante e si sofferma sulla dominante alla fine del primo inciso. La risposta è ascendente-discendente, e conclude la prima semifrase (primo quarto della bt. 4) con una triade di tonica nel secondo rivolto. Stranamente, questo accordo che dovrebbe rendere un senso di conclusiva stabilità è singolarmente teso ed elusivo, poiché in suo luogo ci saremmo aspettati un'anticipazione o un ritardo armonico. La seconda semifrase ha l'antecedente e il conseguente entrambi modellati sulla risposta della prima semifrase, cioè su una linea ascendente-discendente, ma con intervalli meno ampi, come a smussare le curve. Ne risulta una significativa relazione tra la prima e la seconda semifrase: nella prima, il rapporto di opposizione lineare tra antecedente e conseguente corrisponde, nella seconda, a un rapporto di attenuazione della stessa linearità.

La seconda frase mostra come sia possibile agire con forza su un delicato organismo mediante varianti che scalfiscono appena il rilievo. Il lieve mutare della linea melodica è bilanciato dall' alternarsi degli strumenti. Se in principio il primo tema era affidato al primo dei due oboi, nella battuta 9 esso è reintrodotto dal primo flauto, che gli dà una sostanza eterea, candida e sfumata, in luogo del disegno incisivo tracciato prima dall'oboe. Lo schema della melodia discendente è immutato: dalla mediante SOL alla dominante inferiore SI bemolle. La lieve variante si presenta in due sottovarianti nella
prima semifrase. Nell'antecedente, il ritmo puntato dell'incipit è sostituito da una serie di note di passaggio con lo sdoppiamento, nella battuta 9, del secondo ottavo in due sedicesimi. L'aggraziata, apollinea solennità delle battute 1-4 si trasforma in una semplicissima cantilena infantile. Nel conseguente della prima semifrase, un lievissimo
tocco di pollice, un'impercettibile deformazione plastica nella creta, e lo spirito muta stato d'animo: la scaletta discendente è immutata nella linea, ma le prime tre note diventano altrettanti sedicesimi preceduti da una pausa di uguale valore. Basta quella pausa iniziale a dare slancio e fervore, come se si volesse meditare per un attimo prima di abbandonarsi alla musica.

Subito dopo, sull'onda di una piccola fanfara di corni e fagotti, lo slancio e il fervore conducono all'impercettibile ascesa cromatica delle battute 13-14, con la sostituzione enarmonica del DO diesis al RE bemolle, e all'incantevole appoggiatura sull'accordo di settima di dominante nella battuta 15. Qui davvero l'apollineo si concede a chi lo sfiora senza sforzo, come il ramo d'oro del mito si staccava dalla pianta a chi lo toccava dolcemente senza strapparlo. La grazia mendelssohniana del ponte modulante prepara il terreno alla comparsa del secondo tema, della cui felicità siamo grati al giovane autore.
Tocca al primo clarinetto introdurlo, prima con deliziosa esitazione, quasi a piccoli passi interrotti da pause di un sedicesimo, poi con il supremo incanto con cui la prima scaletta discendente, invece di concludersi, come sarebbe da credere, sulla tonica SI bemolle (il secondo tema, in ossequio alle regole, è in tonalità di dominante rispetto al primo), è seguita da un'altra scaletta che ne è quasi l'ombra, collocata più in alto a intervallo di quinta.
Franz Dubitzky ricorda che Friedrich Wilhelm Meyer, cui la Serenade fu rispettosamente dedicata, non gradì il modo con cui l'allievo disegnò l'intero contorno del secondo tema, poiché nelle battute 35-36 esso gli parve una reminiscenza dello Spinnlied delle fanciulle filatrici nel II atto del Fliegender Holländer wagneriano ". Un pedante, Meyer, ma quale occhio!
La Bläserserenade op. 7 apre al linguaggio musicale di Strauss una porta verso il grande spazio dei suoni, e sviluppa in misura decisiva la sua conquista dei timbri strumentali.
Il Festmarsch op. 1 era la prima composizione di un ragazzo già in grado di concepire una scrittura orchestrale. Cinque anni dopo, l'aurea partitura per tredici fiati non è ancora la piena rivelazione dello stile che legherà al nome del suo autore connotazioni inconfondibili, identificandosi con lui, ma testimonia, per la prima volta, che per scoprire quello stile e farlo suo egli possiede ormai tutti i mezzi.

Forse Principe esagera un filino nei peana per questa composizione del 17enne bavarese, tuttavia i 13 fiati de laVerdi sono bravi a farcene apprezzare le qualità… promettenti. Piuttosto, come accaduto tempo fa al pacchetto degli archi (in altra Serenata, quella di Ciajkovski) avrebbero anche potuto essere esentati dalla presenza del Direttore (smile!)
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Emanuele Arciuli arriva poi per presentarci il celebre Concerto di Edvard Grieg. Lui e Marshall hanno già fatto coppia qui quasi esattamente due anni orsono (allora per un grande affresco… ansioso).

In questo lavoro Grieg si rifà scopertamente a Schumann (stessa tonalità, analogo incipit) e anticipa di quasi 20 anni, sempre nell’apertura, un altro concerto in LA minore, il doppio di Brahms. Poi naturalmente ci mette molto di suo, compresa qualche atmosfera dei suoi fiordi.

Se Arciuli pare non voler calcare la mano (smile!) il vulcanico Marshall sottolinea in modo quasi esagerato tutti i chiaroscuri, sia di suono che di tempo, dando al concerto un’impronta… Liszt-iana.

Grande successo per i due e per Arciuli in particolare, che ripropone il bis del suo amato Debussy. Ritroveremo tutti i protagonisti di ieri fra un paio di giorni, alla Scala, impegnati in opere di bene.
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La serata è chiusa dall’esecuzione della Seconda sinfonia di Franz Schmidt, violoncellista prima ancora che compositore vissuto a Vienna dalla fine dell’800 fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.

Dico francamente che lo scarso interesse che suscita questa sua opera (come le altre, del resto) mi pare proprio meritato: comporre nel 1911-13 una sinfonia scimmiottando modelli ormai superati (Bruckner, Brahms) mentre il suo vecchio – e non propriamente amato - Direttore alla Hofoper aveva appena composto, prima di andarsene da questa valle di lacrime, cosucce come Das Lied von der Erde, la nona e la decima sinfonia, ha davvero del velleitario e dell’anacronistico.

A proposito di Mahler, ecco come il grande boemo giudicò un’opera di Schmidt (Notre-Dame de Paris) che il violoncellista-compositore gli sottomise nel 1904 sperando di farla rappresentare alla Hofoper: Molto bella! Ma mi spiace dire che nella sua partitura mancano le grandi idee. Appunto…

Non stupisce quindi che Schmidt, da conservatore, si trasformasse in reazionario, plaudendo al nazismo e all’Anschluss, fino al punto da comporre Deutsche Auferstehung, la resurrezione tedesca, proprio all’indomani dell’annessione (di quella che peraltro era una sua patria putativa, essendo lui slovacco-magiaro di origine). 
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La sinfonia è formalmente in tre tempi, ma in pratica è in quattro, dato che il secondo movimento (un tema con 10 variazioni, che occupa più di un terzo dell’intera durata) si suddivide chiaramente in due: tema + 8 variazioni e Scherzo con Trio costituito dalle ultime due.

Il primo movimento (Lebhaft) è in forma-sonata con alcuna licenza (parafraso Ciajkovski…) Vi si possono distinguere le classiche componenti strutturali: esposizione di due temi (più transizione) sviluppo, ripresa e coda.

Le libertà che si prende Schmidt riguardano più che altro l’impianto tonale: primo tema in MIb maggiore, secondo (!) in SI maggiore; ripresa del primo tema (!) in SOL e SI maggiore. Per il resto, una buona dose di modulazioni, soprattutto nello sviluppo, e il rispetto delle regole nella ripresa del 2° tema, portato in MIb maggiore.  

In apertura, senza introduzione, viene esposto il primo tema, assai vivace e di carattere pastorale:


Il tema si sviluppa a piena (fin troppo!) orchestra, con soggetti secondari assai enfatici, poi il ritmo di tranquillizza, vira al minore lasciando spazio ad una transizione (pare l’Incantesimo del fuoco wagneriano…) che modula verso il SI maggiore in cui il pacchetto di 6 corni (degli 8) espone il secondo tema, più cantabile:


Anch’esso poi si anima per l’intervento di tutta l’orchestra (si odono qui atmosfere straussiane) e quindi sfuma lentamente perdendosi in lontani rintocchi dei timpani, col che si chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è canonicamente introdotto dal primo tema, in MIb, dopodiché si assiste a sue diverse modulazioni (SOL maggiore, DO minore, LAb maggiore); il secondo tema compare contrappuntando il primo sul LAb maggiore, poi modula a SI maggiore, da cui scende ancora al LAb, anzi alla sua relativa FA minore. Ci avviamo alla conclusione dello sviluppo, con una teatrale serie di pesanti accordi di corni e trombe, intercalati da sussulti di archi e legni, che sfociano in un RE maggiore, assai tranquillo, che chiude con fiati, timpani, piatti e tamtam, in pianissimo.  

La ripresa ripropone il primo tema in SOL maggiore alternato a DO e SI maggiore, la tonalità del secondo tema che viene poi esposto nel canonico MIb maggiore, sul cui sfumare dei timpani (come nell’esposizione) si passa alla conclusiva coda, che si costituisce come un nuovo mini-sviluppo dei due temi, e che chiude nella tonalità d’impianto dopo una serie di altre modulazioni.

Il secondo movimento è un Allegretto con variazioni, il cui tema in SIb, assai delicato ma anche piuttosto lezioso, è esposto da tutti e soli i legni:


Gli archi soli (contrabbassi esclusi) sono protagonisti della prima variazione, che si mantiene sul piano elegiaco del tema, esposto dai primi violini, semplicemente muovendolo con le semicrome dell’accompagnamento degli altri archi. La seconda variazione è ancora appannaggio dei soli fiati, i legni cui si aggiunge il primo corno: l’atmosfera bucolica non cambia.

La terza variazione, ancora esposta dai soli archi, imprime invece un nuovo ritmo, a partire dal tempo che, da ternario, diviene binario (2/4) oltre che dalla puntatura delle note. Una tecnica che pare mutuata dal Brahms delle variazioni op. 56. Dopo una lunga pausa ecco la quarta variazione, ancor più spedita nel tempo (Schnell, 4/4 alla breve) che comincia ad impegnare diverse sezioni dell’orchestra: mentre gli strumentini e i corni espongono il tema con note di lunghezza dilatata (semibrevi e minime) fagotti e violoncelli lo contrappuntano con svolazzi di semicrome, e i timpani e gli archi scandiscono un ritmo marziale. Si chiude con le veloci semicrome di archi, fagotti e clarinetto.

Nella quinta variazione il tempo si velocizza ulteriormente (Sehr schnell, 3/8) e muta anche la tonalità (REb maggiore, SIb minore): sono ancora i legni –divisi in due gruppi che si alternano (flauti-coboi-cornoinglese e clarinetti-clarinettobasso e fagotti - ad esporre la melodia, mentre gli archi l’accompagnano con un tappeto di tremolo, spalleggiati da timpani e piatti. La sesta variazione vede il tempo degradare ulteriormente (Langsam und ruhig) mentre la tonalità resta fra SIb e REb: un’oasi dall’atmosfera intimista ed elegiaca, cui segue la settima variazione, nuovamente veloce (Sehr schnell, 6/8, MIb minore-maggiore) e caratterizzata da una poliritmia ottenuta dalle crome (6 per battuta) dei fiati (ancora divisi in due gruppi) e le semicrome (8 per battuta) degli archi, pure divisi in due gruppi che spalleggiano il botta-e-risposta dei fiati.

L’ottava variazione è in agogica dolente (Sehr leidenschaftl, nicht zu schnell, 3/4). La tonalità di base è FA# maggiore, con una divagazione a LA. Qui l’atmosfera, dal sapore vagamente boemo, che ricorda Dvorak e Smetana, richiama forse le terre di origine del compositore.

Come detto, le ultime due variazioni si configurano come uno Scherzo con Trio. La nona, piuttosto vivace (Sehr lebhaft, 3/4) apre con 8 battute introduttive, di archi e legni (questi in corale) prima che gli archi attacchino il tema, subito inseguiti dal resto dell’orchestra. La tonalità prevalente è SIb, con digressioni al FA. Il ritmo è assai pesante e  marcato, spesso addirittura sgradevole, con eruzioni di corni, trombe e timpani piuttosto sgraziate. La decima variazione rappresenta il Trio, più lento (Sehr ruhig) prevalentemente in DO#, tempo 9/8, caratterizzato da un eccesso di strumentazione che non gli giova. Ci troviamo un po’ di Bruckner ed anche di Mahler, ma poca ispirazione. Lo Scherzo riprende (variazione 9) per concludere il movimento con una coda tanto affannosa quanto musicalmente modesta. 
  
Il Finale è un Adagio (Langsam, con qualche increspatura) che forse cerca di scimmiottare quelli di Mahler o di Bruckner: la buona volontà di sicuro c’è, ma i risultati sono assai meno… convincenti, ecco.

Anche qui c’è una prima sezione – a canone - suonata esclusivamente dai fiati, che poi cedono brevemente il posto agli archi, prima di riprendere il controllo esclusivo ed ancora lasciare poco spazio agli strumenti a corda. Poi ecco finalmente l’intera orchestra portare avanti il discorso fino alla fine, fra vaghe reminiscenze di Ciajkovski e Dvorak, e con qualche sussulto a turbare l’andamento pacato del brano.
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Che dire? Vorrei, non posso? L’orchestrazione è mediamente di una notevole pesantezza: è raro che i temi emergano chiaramente e pulitamente da un marasma sonoro dove troppi strumenti suonano note di puro riempitivo, che finiscono per disorientare l’ascoltatore e tradiscono verosimilmente una notevole carenza di narrativa. Insomma, un pezzo che al massimo può suscitare curiosità, più che ammirazione. 

Ma che non dev’essere per nulla facile da suonare, per cui i ragazzi (e Marshall con loro) si meritano comunque una lode, e si sono meritati l’applauso del loro affezionato - anche se non proprio oceanico - pubblico.