ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

06 febbraio, 2013

Nabucco resta in brache di tela alla Scala


Secondo titolo verdiano nella stagione del centenario: dopo Falstaff (ultima opera del Maestro) ecco Nabucco, che se non è la prima, poco ci manca (ma fra qualche tempo è in programma anche Oberto, proprio la prima). Una produzione nuova affidata al duo Luisotti-Abbado (Daniele, oh…) che esordisce qui per trasferirsi poi a Londra, Chicago e Barcellona.

Ieri sera terza recita, in un Piermarini abbastanza affollato, ma dove si notava a colpo d’occhio l’enorme vuoto lasciato dal bandito Isotta Paolo (smile!) (In un primo momento avevo pensato – dati i tempi piuttosto duri - di approfittarne, chiedendo a Lissner di girare a me il pass dello sgradito, ma nel frattempo un manichino ambulante con rassicurante sorriso a 64 denti mi ha garantito il rimborso dell’IMU e l’eliminazione di ogni altra tassa, più in omaggio un DVD con la Strepponi che fa il bunga-bunga, e allora ho deciso di soprassedere e di continuare a pagarmi di tasca mia l’abbonamento, garantendomi così anche l’indipendenza di giudizio… ultra-smile!

Luisotti ha diretto con onesta pulizia e (per me) con grande attenzione a non farsi prendere la mano da eccessive enfasi (forse doveva farsi perdonare qualche critica di eccessiva foga che si era beccato l’altr’anno dirigendo qui Attila).

A mo’ di esempio, citerò l’Andante maestoso su D’Egitto là sui lidi, dove abbiamo un volgarotto cèccè/pùm-cèccè/pùm, scandito da archi, triangolo e corni su ogni semiminima delle battute in 4/4, che accompagna la prosaica linea melodica, ora esposta dal coro (Di lieto giorno un so-o-o-o-o-le) sottolineata in unisono da trombette, tromboni e fagotti:
 
Qui se non si dosano al meglio – come ha saputo fare Luisotti - gli ingredienti sonori (tutti, voci e strumenti, sono notati in piano…) c’è il rischio di ottenere l’effetto di una banda di paese della bassa che avanza verso la chiesa, seguita da un coro di contadini e contadine vestiti della festa e inalberanti effigi di Marie Vergini e Cristi Re!

Quindi, il maestro per me si merita un ottimo voto.

Il coro di Casoni mi è parso all’altezza, anche se proprio dopo il Va’ pensiero sono piovuti alcuni isolati buh dal loggione (peraltro compensati da lunghi applausi e bravi!)

Che dire dell’inossidabile Leo Nucci? Che - ahilui - forse si sta un tantino ossidando (smile!) La sua capacità di auto-gestione è sempre grandissima (anzi di certo aumenta con l’esperienza di decenni!) ma le pecche fatica sempre di più a coprirle, prima fra tutte l’intonazione spesso trovata a partire da un bel quarto di tono sotto, rispetto alla nota da scandire. E anche i non prescritti LAb acuti (duetto della terza parte e Oh prodi miei della quarta) non sono proprio stati delle meraviglie, diciamolo… Insomma, come gli accade da parecchio tempo ormai: per lui gran successo ma… alla carriera. A proposito di carriere, in aprile a Londra la parte sarà sostenuta – indovina? – dal Topone!

Vitalij Kowaljow sarebbe uno Zaccaria rispettabile se avesse più voce là dove la si richiede ad un basso (smile!) Invece dal LA grave in giù (i SOL e un paio di FA# cui Verdi lo chiama) il nostro sembra proprio cantare immerso in un acquario.  

L’Ismaele di Aleksandrs Antonenko fatica a meritarsi la mia sufficienza (e dire che io sono proprio di bocca buona!) Potenza notevole, ma impiegata in modo rozzo e scriteriato (tutto l’opposto di come dovrebbe essere il mite Ismaele); intonazione sempre problematica, più che altro crescente (forse per paura di… calare).

Liudmyla Monastyrska è stata a mio giudizio la migliore della compagnia (ma si sa che tutto è relativo!): alla gran voce ha unito una sorprendente (per me, almeno) capacità di espressione e di portamento (fondamentali per questo personaggio di donna altera e spietata, ma alla fine distrutta e convertita) oltre a discreta fluidità nei ripidi saliscendi in cui Verdi la impegna.

Però, accipicchia, come si permette di prendersi certe libertà?! Nella cadenza (compresa la ripetizione) del celeberrimo cantabile della seconda parte (Anch’io dischiuso…) al verso Chi del perduto incanto mi torna un giorno sol troviamo questa unica battuta, che Verdi prescrive tutta in legato:

Viceversa la Monastyrska la stravolge letteralmente: inserisce una pausa (di respiro?) prima del LA acuto sul quale, in compenso, si ferma poi con una corona puntata. Ora, dato che il passaggio non è di quelli che richiedono doti di apnea alla Majorca, dovrei dedurre trattarsi di una scelta estetica dell’abbondante Liudmyla: dalla quale scelta, invero sconsiderata, modestamente mi dissocio in-toto.

Discreta la prestazione di Veronica Simeoni (Fenena): voce bene impostata, anche abbastanza passante, e di timbro gradevole. Lodevole anche la sensibilità alle caratteristiche del personaggio di donna allo stesso tempo pia e coraggiosa.

Giuseppe Veneziano (Abdallo), Tatyana Ryaguzova (Anna) e il gran Sacerdote Ernesto Panariello: come da minimo sindacale.

Tirando le somme, una prestazione musicale appena dignitosa, che ai miei occhi mantiene quel livello di qualità (fossi Moody’s, oggi confermerei un rating Baa1) dopo la piccola risalita registrata già in occasione del Falstaff.
___
Due impressioni sulla messinscena, che Daniele Abbado ha ripensato dopo quella di anni fa al Regio di Torino.

La sua concezione è diffusamente spiegata sul programma di sala, che ogni spettatore dovrebbe tassativamente leggere prima di assistere allo spettacolo, onde evitare di non capirci proprio nulla, tanta è la distanza fra i contenuti (testo e musica) dell’originale di Solera-Verdi che arrivano alle orecchie e ciò che dalla scena arriva agli occhi.

Sappiamo come Verdi avesse bisogno come l’aria di scenari di macro-conflitti a sfondo storico (o pseudo-storico, o biblico, nella fattispecie) da dipingere con grandi affreschi musicali, all’interno dei quali collocare i micro-conflitti delle personalità e degli affetti (amore, odio) dei singoli individui protagonisti dei suoi drammi. Ebbene, nella regìa di Abbado – sembra paradossale - manca proprio tutto, gli uni e gli altri (hai detto niente…)

Il conflitto, epico e anche mortale, fra due popoli e due etnìe -  basta leggere il libretto di Solera e ascoltare attentamente la musica di Verdi per capacitarsene (e lì gli ebrei non appaiono meno manichei e sanguinari degli assiri!) nell’allestimento di Abbado scompare, rimpiazzato da un non meglio definito scenario di disordine sociale, di continue sofferenze e di nichilistica rassegnazione di un unico e indistinto popolo. Per il quale il personaggio di Nabucodonosor non incarna il capo sanguinario e vanaglorioso di un altro e diverso popolo nemico mortale, ma una specie di proiezione delle proprie colpe secolari. Il che è un’interpretazione francamente forzata dell’ira del Nume sdegnato e del peccammo! che ascoltiamo in bocca agli ebrei nella prima scena.

Ma se guardiamo i costumi e le scene di Alison Chitty ci rendiamo subito conto che quell’unico popolo è il popolo ebraico ai tempi della Shoah: inequivocabili le lapidi disseminate in scena e le alte colonne laterali, che ci ricordano cimiteri ebraici e musei dell’Olocausto (che vedremo profanati all’arrivo di Nabucodonosor). Ma allora, accipicchia, se costui, invece di tale Adolf Hitler, è la proiezione dei sensi di colpa degli ebrei, dove andiamo a parare? Certo, mostrare il Führer nei panni del delirante despota assiro sarebbe stato demenziale, in quanto avrebbe comportato la finale farsa di un Ben Gurion che consacra un convertito Hitler come de’ regi il re!

Invece cosa vediamo noi in scena, all’arrivo di Nabucodonosor? Una situazione da sciopero selvaggio in una fabbrica occupata, nella quale fa il suo ingresso il titolare, il padrone, in elegante doppiopetto. Il quale sfida sprezzantemente gli scioperanti, prendendo a calci i volumi da loro deposti a terra, libri che dovrebbero rappresentare altrettante Bibbie, ma che nello scenario propostoci da Abbado dovremmo ipotizzare essere Das Kapital!   

E nel primo quadro della seconda parte, come spiegare il recitativo di Abigaille, che con una torcia dà fuoco a quelli che sembrano brandelli di quei libri della scena precedente? Forse la Bücherverbrennung del 1933? Mah…

E tutta l’opera prosegue su questa falsariga: uno scenario di indistinta sofferenza-insofferenza, mista a negativa rassegnazione. Ed è quindi fatale che l’unica scena che invece nel Nabucco originale evoca precisamente quella situazione e quello stato d’animo - il Va’ pensiero – finisca per perdere la gran parte della sua efficacia e del suo significato, immersa com’è in questa atmosfera uniformemente grigia (sì proprio grigia in tutti i colori di tutto ciò che sta in scena). Così come efficacia e significato perdono, ovviamente, tutte le scene che invece dovrebbero rappresentare la furia, l’ira, l’orgoglio, le manìe di grandezza e gli opposti integralismi religiosi. Il Nabucodonosor in canottiera sarà pure una metafora del famoso principio Il Re è nudo, ma diventa incoerente e incomprensibile in quello stesso scenario che Abbado gli ha costruito intorno.

Insomma, l’allestimento di Abbado ha il difetto – assai frequente nella prassi del Regietheater – di prendere una (piccola) parte o un solo aspetto del dramma originale per farne il tutto della messinscena. Così, in questo caso, ci viene nascosto il principale nocciolo drammatico di Nabucco, con la sua conclusione (tanto utopistica quanto storicamente inconsistente e ridicola) che sta nel prevalere del rapporto positivo fra individui (l’amore coniugale Fenena-Ismaele e soprattutto l’amore paterno Nabucco-Fenena) sul rapporto negativo fra politiche, imperialismi, ideologie e religioni guerrafondaie. Se si può indicare una morale della favola del Nabucco di Solera-Verdi, essa risiede nel fatto che la conversione di Nabucodonosor non è dovuta ai fulmini dell’immenso Jeovha, ma all’amore di un padre per la figlia; così come è l’amore fra Fenena e Ismaele a portare Abigaille a rinnegare il suo passato e la sua religione, rinunciando addirittura al supremo potere appena conquistato, di fronte alla constatazione che non c’è potere al mondo che possa surrogare la mancanza di amore.

In definitiva: un’operazione che non è né carne né pesce, equivoca e velleitaria al tempo stesso; un po’ come lanciare il sasso e… ritirare la mano.

3 commenti:

Marisa ha detto...

Molto divertente la tua analisi dello spettacolo, tanto che mi è sembrato di essere presente.
Come sempre sei molto preciso e altrettanto oggettivo ma come mai il coro è stato buato?
Per un fatto scenico o anche per una scarsa espressività musicale?
Un caro saluto.

daland ha detto...

@Marisa
Grazie per gli apprezzamenti.
Francamente mi pare di aver notato una (piccola) sfasatura nell'attacco di "Oh mia patria" ma bisognerebbe chiedere al buatore; non è detto che non ce l'avesse con Luisotti, chissà.
Scenicamente era... grigio, purtroppo come tutto il resto.
Ciao!

Giovanni Forneris ha detto...

Carissimo DALAND,
scrivo in ritardo poiché il “mio” Nabucco risale a mercoledì scorso, peraltro in concomitanza con la pessima mandata in onda di Rai5.
Come sempre, la tua è la più equilibrata ed attenta critica su Nabucco dei vari blog.
Concordo con l’osservazione iniziale sulla regia: leggere prima le note del regista –come se ci fosse solo quello da fare!- ed eventualmente, come qualcuno tempo fa ha scritto, recarsi a teatro in compagnia dello psicologo. In merito a Luisotti condivido per l’”ottimo voto”; la pausa della Monastyrska - voce veramente interessante- da te citata non è la sola: spesso interrompe la frase, magari legata, per respiri che meglio gestiti – non mi pare sia già a corto di fiato!- rispetteranno il fraseggio scritto.
Alla Simeoni personalmente darei non un discreto ma un voto più che buono. Assai inadeguato, vocalmente e scenicamente, l’onnipresente Panariello. Per gli altri solisti, come da te stimato.
Il coro, pur nel complesso di ottima qualità, non mi pare abbia eseguito un “Va’ pensiero” da manuale. Buona l’orchestra, egregi i fiati, salvo il solito corno che ci regala sempre qualche sonoro scrocco.
In complesso, salvo la regia poco comprensibile, direi un valido Nabucco.
Ti saluto con affetto.
Giovanni Forneris