bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

31 ottobre, 2012

Abbado ritorna a casa… accompagnato


Dopo più di due anni dalla mancata Seconda, il divino Claudio si è finalmente presentato sul palco del Piermarini per offrirci la Sesta di Mahler. Chissà se nel frattempo Milano si è ricoperta di una foresta d'alberi (così, a prima vista, sembrerebbero cresciuti di più i pilastri di calcestruzzo…) In ogni caso il pubblico ha dimenticato forfait e platani e gli ha riservato l'accoglienza che obiettivamente si merita: trionfale. Purtroppo gli è mancato l'applauso e l'abbraccio della sorella Luciana, scomparsa proprio due giorni fa.

Prima di Mahler abbiamo avuto l'ultimo successore di Abbado alla guida dei Musikanten scaligeri che si è cimentato nella sua originaria specialità, il pianoforte, eseguendo il Primo Concerto di Chopin. Ora, se Chopin è sinonimo di rubato, allora Barenboim ha fatto… la rapina del secolo (stra-smile!) Poi ha pure fatto un discorsetto per spiegare la mancanza di un… bis!

Ma torniamo ora al clou della serata e a Mahler: intanto, sul fronte della scelta interpretativa Abbado ha optato per la collocazione dell'Andante prima dello Scherzo, approccio che ultimamente pare essere una sua costante (diverso da quello delle prime esecuzioni di qualche lustro addietro…) e che sembrerebbe guidato dalla volontà di spogliare l'opera dalle troppe incrostazioni extra-musicali, rimettendola su un solido binario estetico più vicino al classicismo (o magari all'espressionismo…) che al tardo-romanticismo.
 
La sua è una direzione asciutta, quasi ieratica, scevra da facili gigionerie (anche dove la partitura potrebbe facilmente indurre il Direttore in… tentazione) che tende precisamente a fare emergere ciò che di assoluto (musicalmente ed esteticamente parlando) Mahler ha incorporato in quest'opera.

Il risultato è stato di alto livello, anche se l'ipertrofia dei mezzi (gli archi, massimamente – ho contato 16 contrabbassi e altrettanti violoncelli – mentre fiati e percussioni erano, triangoli a parte, nelle prescrizioni mahleriane o poco più) non mi pare abbia portato un proporzionale innalzamento della qualità del suono. Evidentemente Abbado, unendo le forze della sua Orchestra Mozart - in cui peraltro suonano fior di prime parti di fama internazionale - a quelle della Filarmonica da lui fondata 30 anni orsono, ha inteso dare all'evento un ulteriore carattere, come dire, celebrativo: festeggiando il ritorno in Scala con la sua prima e la sua più recente creatura. Con un equilibrio migliore mi aveva personalmente colpito, nella stessa sala del Piermarini, la prestazione di Harding con la LSO.

Comunque la festa non è certo mancata: pochi (troppo pochi!) attimi dopo il LA pizzicato degli archi, a chiudere la Tragica, sulla triade di LA minore delle trombe e sull'ultimo sommesso colpo di grancassa, un grazie maestro! piovuto dalla seconda galleria ha purtroppo rotto l'incantesimo, dando di fatto inizio al quinto movimento della sinfonia, suonato dalle sole percussioni: le mani degli spettatori e i piedi dei musicisti. Un movimento durato almeno quanto l'Andante, con il quale il suo pubblico ha voluto salutare e ringraziare un Maestro che a Milano ha davvero lasciato il segno.

26 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.7


 
Tutto Brahms per il concerto che vede il rientro dalla maternità della Direttora Xian. Programma di struttura tradizionale, aperto dalla più famosa delle Danze ungheresi, la n°1, che serve a far scaldare i motori dell'Orchestra.

 
Due alfieri della quale sono i protagonisti del Doppio Concerto op.102: Luca Santaniello, ormai storico Konzertmeister de laVerdi, e Mario Shirai Grigolato, che da anni ne è il primo violoncello.

Il concerto è di quelli piuttosto trascurati e forse sottovalutati, considerato spesso come opera di un Brahms che aveva ormai tirato i remi in barca, quasi un pezzo di circostanza per suggellare la ritrovata amicizia con Joachim. Mentre in realtà è una partitura tutt'altro che facile, e soprattutto difficile da valorizzare. Motivo in più per lodare la prestazione del tutto convincente dei due beniamini del pubblico dell'Auditorium, questa sera affollatissimo. Evidentemente il suonare sempre insieme (pur ai lati opposti del podio…) garantisce il miglior affiatamento.

Xian tiene l'orchestra piuttosto sottotono, ma a fin di bene, proprio per far meglio risaltare le qualità dei solisti, che ricevono ovazioni e concedono un bis altrettanto difficile (come si può constatare qui, dove è suonato da un tizio… sdoppiato!)

Dopo la pausa, ecco la sinfonia (ai tempi) più attesa, pretesa e reclamata della storia: che Brahms finalmente si decise a rilasciare nel 1876, dopo quasi tre lustri di gestazione!

Prima già diretta da Xian quasi due anni fa. Rispetto alla già apprezzabile prestazione di allora, molto mi pare cambiato (chissà poi se c'entra anche il recentissimo, secondo fiocco azzurro…)

Intanto un incipit austero, il Poco sostenuto trasformato quasi in un Largo (!) ma di grandissima nobiltà. Poi il trattamento dei timpani, davvero messi in primo piano (ma non certo in modo becero e bandistico!) dove la Viviana si è davvero superata. E in generale una tensione spasmodica, che i ragazzi hanno saputo assecondare alla grande. Il duetto fra il violino di Dellingshausen e il corno di Ceccarelli nell'Andante è stato da antologia, come l'attacco del Poco Allegretto di miss-sorriso, Raffaella Ciapponi. E ancora strepitosi il corno di Ceccarelli e il flauto di Crepaldi nel richiamo dell'Alphorn del finale.

Insomma, un'esecuzione da incorniciare, premiata da un autentico trionfo.

Il prossimo appuntamento è in giornate di santi&morti, il che ha evidentemente suggerito la messa in programma di un Verdi piuttosto… sacro.


23 ottobre, 2012

Bohéme senza sorprese alla Scala


Due delle undici recite di questa Bohème erano attese con grande curiosità: quelle che vedevano il ruolo di Mimì coperto dalla star Anna Netrebko. Importanti soprattutto per gli allibratori, che su di lei accettavano scommesse: non già sulla qualità della prestazione o sull'accoglienza che avrebbe ricevuto, ma sull'eventualità di una sua defezione all'ultimo momento (smile!)


Ebbene, questa volta niente sorprese: la divina Anna non ha accampato scusanti, e si è eroicamente presentata alla ribalta! Ed ha ottenuto un successo davvero strepitoso, in un teatro praticamente esaurito.

Ma direi che tutta la compagnia è stata all'altezza: Beczala innanzitutto, un convincente Rodolfo, il veterano Capitanucci, che alla scala fa Marcello ormai da un'eternità e lo Schaunard di Cavalletti; un filino sotto il Colline di Spotti e la Musetta della Dehn. Dignitosi gli altri comprimari e lodevoli i cori di Casoni.

Daniele Rustioni (fa rima con Battistoni, ma nel gesto assomiglia assai a… Mariotti) non ha – alle mie orecchie – demeritato, confermandosi ormai più che una promessa.

L'allestimento di Zeffirelli, che compie praticamente mezzo secolo, è proprio di quelli da museo: ma non nell'accezione sprezzante e diseducativa (sì, diseducativa, perché i musei sono l'asset più importante di una civiltà…) dei tifosi delle moderne regìe usa-e-getta, ma perchè davvero merita di essere portato ad esempio di serietà, coerenza e soprattutto di rispetto assoluto di un capolavoro del teatro musicale.

Come detto: gran trionfo, mi pare proprio meritato.


19 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.6


Torna dalla Malesia Claus Peter Flor per dirigere un concerto di quelli davvero tosti: dopo un antipasto - ma di quelli abbondanti - di Bach, la poderosa Ottava di Anton Bruckner.

Deborah York, una specialista di questo repertorio, apre il concerto con la cantata Mein Herze schwimmt im Blut (Il mio cuore nuota nel sangue) BWV 199. Pezzo assai impegnativo per il soprano, chiamata ad un vero tour-de-force, più di 20 minuti di canto quasi continuo! Basti pensare che la cantata si articola su quattro recitativi che introducono altrettante arie (o un corale, nel terzo caso). 

Una cantata quasi unica nella produzione bachiana, strutturata proprio come un dramma, di un individuo che confessa in modo straziante i suoi peccati, per arrivare alla luminosa beatitudine garantitagli da quel Dio con cui ha finalmente fatto pace

Della cantata esistono due versioni, che differiscono (quasi esclusivamente) per la tonalità: la versione originale di Weimar (DO minore, chiusa in SIb maggiore) e quella successiva di Köthen e poi di Lipsia, che è innalzata di un tono intero, per mantenere invariata l'altezza del suono in presenza (a Köthen e a Lipsia) di diapason di un tono più basso rispetto a quello di Weimar (Kammerton invece di Chorton). Un'altra non piccola differenza risiede nello strumento che accompagna il Corale: a Weimar una viola, a Lipsia un violoncello piccolo. Qui si è impiegata la prima versione di Weimar. 

Musicalmente è un lungo cammino, che ci porta dal DO minore (e relativa MIb maggiore) dei primi due recitativi e delle prime due arie fino al FA maggiore del corale e da qui al SIb maggiore dell'ultimo recitativo e della giga conclusiva. 

I primi versi del primo recitativo e dell'aria conclusiva ne sono chiara dimostrazione: alla disperata esternazione, ripresa dal titolo, di un cuore letteralmente annegato nel sangue, fa da contrappeso il liberatorio Wie freudig ist mein Herz (Com'è gioioso il mio cuore) che ci mostra quello stesso cuore rinato a nuova vita nella grazia del Signore: qui i due versi nelle versioni di Lipsia e di Weimar:


Insomma, un mirabile tragitto, dall'inferno al paradiso, che la York ha interpretato con grande profondità e magistero, accompagnata a dovere dagli strumentisti di casa: su tutti l'oboe di Luca Stocco, davvero strepitoso nell'accompagnamento della seconda aria. Ma anche Gabriele Mugnai con la sua viola ha fatto grandi cose nel difficile accompagnamento del corale

Davvero un degno preludio per il piatto forte della serata: l'Ottava e penultima sinfonia (l'ultima completata) di Anton Bruckner.

Il quale, dopo averla riveduta e corretta in seguito all'iniziale stroncatura di Hermann Levi, ci scrisse (ma appunto a-posteriori) delle note esplicative – raccontando amenità, dalla morte che bussa alla porta, al buon tedesco operoso e un po' ingenuo, per finire agli augusti incontri di cavallerie di zar e imperatori – note che personalmente reputo più fuorvianti che utili all'apprezzamento dell'opera. Che invece si erge come un monumento proprio grazie alla sua (mi permetto di usare parole spese da Adorno per Mahler) immanenza formale, che ovviamente si accompagna alla bellezza dei temi ed alla coerenza con cui vengono proposti.
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Il movimento iniziale, che a prima vista (meglio, al primo ascolto) potrebbe apparire astruso e farraginoso, è invece di una disarmante chiarezza e linearità (in forma-sonata, appunto) che principia con l'esposizione dei tre temi: il primo, ripetuto in fortissimo dopo l'iniziale presentazione assai sommessa, che dall'incipit oscuro sboccia in uno sviluppo quasi enfatico, introducendo il bruckneriano stilema 2+3; il secondo, di grande lirismo, con le caratteristiche ascensioni, anch'esso ripetuto e sviluppato sul 2+3; e il terzo, ancora cupo al principio, che si appoggia sul ritmo 3+3, e porta rapidamente ad un acceso dialogo archi-ottoni, con discendenti quintine sforzate; il tutto chiuso da una spettacolare fanfara delle trombe. Poi lo sviluppo, in cui non è difficile scorgere i tre temi (o spezzoni di essi) che si ripresentano in sequenza, manipolati e incalzati dal ritmo del primo tema. Segue la ricapitolazione dei tre temi, con i dovuti e canonici cambi di tonalità (ad esempio il terzo che passa a quella di impianto di DO minore, da quella dell'esposizione, MIb minore) fino ad arrivare ad una enfatica perorazione sull'accordo di DO minore e poi sul solo DO ribattuto (sempre sull'incedere martellante del primo tema) da corni e trombe. Qui si arriva inaspettatamente (fu una delle radicali modifiche apportate dall'Autore in fase di stesura della versione definitiva) alla Coda, che presenta il primo tema e letteralmente lo sottopone ad un processo di decomposizione, fino a soffiarne via anche l'ultima particella di polvere.

Ad esso segue lo Scherzo, dal tipico stilema bruckneriano, riconoscibile fra mille, una specie di danza ossessiva, sulla scala di DO minore: DO/MIb-FA-SOL/SOL-DO (tema che tornerà nel finale e, in maggiore, proprio nella chiusura della Sinfonia). Esposto una prima volta e chiuso in MIb, invece del Trio gli succede una seconda esposizione variata e sviluppata, fino alla nuova chiusa, adesso in DO maggiore. Solo ora abbiamo il Trio, di proporzioni gigantesche, dove si alternano momenti di intimo raccoglimento (notiamo l'intervento delle due arpe) ad altri di esaltazione. Il Trio si chiude in LAb maggiore, seguito dalla canonica e pedestre ripetizione dello Scherzo. 

L'ipertrofico Adagio, in REb, è puro distillato di suoni, a cominciare dal primo tema, con quella specie di sospiro (LAb-SIbb-LAb) che sembra rifarsi al primo tema del movimento d'apertura, che porta lentamente ad una perorazione in fortissimo di tutta l'orchestra, con arpeggi degli ottoni culminanti in una quintina che sfocia sul LA maggiore. Tema ripetuto e sfociante stavolta in SI. Poi un nuovo tema, che ricorda la Settima, seguito da un altro nelle tubette, solenne e arcano, in DO maggiore, che scende dalla mediante alla tonica e da qui giù, plagalmente, alla sottodominante FA, per poi risalire di un'intera ottava. I temi vengono più volte sviluppati, con un lungo alternarsi di slanci verso l'alto e ripiegamenti intimistici. Si torna al tema principale e da qui a sviluppi che conducono ad un primo climax, che si spegne immediatamente, ma per dar inizio ad un crescendo che porta alla nuova perorazione in tutti i fiati, in MIb, dove torna l'enfatica quintina, di cui si ricorderà Mahler nel finale della sua Terza (ma non solo lì):

Adesso ci si avvia alla Coda, che è una cosa grande, a cominciare dal recitativo dei corni (anche questo verrà ripreso da Mahler in chiusura del primo movimento della Nona):

Ma davvero stupefacente è tutta la cadenza conclusiva, in REb, esposta dai primi violini, su un dolcissimo pedale dei corni che espone la cellula iniziale, di una bellezza semplicemente incomparabile:

Il Finale si apre con un gran fracasso di ottoni, poggiante sulle semiminime acciaccate degli archi: per carità, lasciamo perdere Olmütz e l'incontro equestre fra l'Imperatore asburgico e lo Zar di tutte le Russie! Apprezziamo questa musica perché è bella, e basta! Per contrasto, segue un gruppo di temi di carattere religioso, poi solenne, che porta ad un gigantesco tutti dell'orchestra, chiuso sul ritmo martellante del primo tema della Sinfonia. E proprio in omaggio alla ciclicità della forma, Bruckner ricapitola anche tutti gli altri motivi, a cominciare da quello dell'Adagio e poi – delicatissimo, trasfigurato, nei flauti - a quello dello Scherzo. Ma il cammino è ancora lungo, un altro poderoso tema irrompe negli ottoni, poi ancora un religioso raccoglimento sulle note del tema iniziale, che viene viepiù sviluppato, prima di tornare nella sua pienezza. Ma non è ancora finita, c'è un nuovo raccoglimento, un'altra esplosione, quindi un lungo tratto, per così dire di… penitenza, prima di arrivare al Ruhig (Tranquillo) dove inizia la perorazione finale. È il tema dello Scherzo, adesso davvero maestoso, che sigilla l'opera, in un pesante DO maggiore, che culmina in una perentoria discesa da mediante a tonica, MI-RE-DO! 
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Flor – che ha schierato l'orchestra in formazione alto-tedesca (bassi a sinistra e violini secondi al proscenio) con le arpe sull'estrema destra - mi è personalmente piaciuto assai: per i tempi che ha staccato, senza mai estremizzare, e per i bellissimi contrasti che ha saputo portare a galla, fra i fracassi più smaccati e i passaggi quasi cameristici di cui è costellata questa immensa partitura. I ragazzi hanno risposto benissimo, e gli perdoniamo volentieri qualche piccola sbavatura qua e là, che nulla ha tolto alla splendida riuscita dell'esecuzione.

La prossima settimana dovrebbe vedere il ritorno in campo della fresca mammina Zhang Xian per un concerto tutto brahmsiano

17 ottobre, 2012

Il complesecolo di Pierrot festeggiato dall’Orchestraverdi



In aggiunta ai 38 della stagione regolare, laVerdi mette in programma alcuni concerti straordinari, il primo dei quali ha visto ieri sera sul podio (non sempre…) Ruben Jais, che per una volta si è trasferito dal suo mondo barocco a quello della musica del ‘900.

Il 100° anniversario della prima di Pierrot Lunaire è stata l’occasione per presentare – oltre alla festeggiata - alcune altre interessanti opere di Schönberg, a coprire tre diverse stagioni – tonale, atonale, seriale - della produzione dell’inventore (o quasi… per via di un tale Hauer) della dodecafonia.

Iniziativa lodevolmente pubblicizzata anche dalle edizioni del TGR Lombardia (dove evidentemente Jais deve avere qualche amica influente, smile!) il che ha fatto sì che l'Auditorium fosse discretamente popolato. Così come assai interessante e lodevole è stata l'introduzione alla figura del compositore ed ai brani in programma fatta da Anna Maria Morazzoni, una specialista in musica del '900 e di Schönberg in particolare.

Abbiamo quindi ascoltato – senza bisogno di direttori… - la prima versione (per sestetto d'archi) di Verklärte Nacht, opera dello Schönberg ancora legato alla tonalità, sia pure con approccio tardo-romantico o post-wagneriano o come altro lo si vuol chiamare. Questa è la versione dell'opera che personalmente preferisco, di gran lunga rispetto a quella per orchestra da camera, spesso suonata da plotoni di archi che inevitabilmente spogliano questa mirabile partitura – di fatto quartettistica – delle sue peculiari qualità.

Bravissime le prime parti de laVerdi (Santaniello, Viganò, Mugnai, Thanasi, Grigolato e D'Agostino) a porgerci questo autentico gioiello composto precisamente a cavallo fra '800 e '900: musica a programma, ma che si gusta al meglio dimenticando del tutto quel programma balordo (vedi sotto) come del resto consigliava di fare lo stesso autore…
Poi si è fatto un salto di più di 20 anni, direttamente all'inizio del periodo dodecafonico, con l'ascolto di un brevissimo brano (3 minuti o poco più) intitolato Sonetto del Petrarca (CCLVI, n°4 dalla Serenade op.24) con la voce del baritono Christian Miedl. La serie dodecafonica qui impiegata è la seguente: MI-RE-MIb-DOb(SI)-DO-REb-LAb-SOLb-LA-FA-SOL-SIb.
Su ciascuno dei versi della poesia vengono impiegate 11 note, cosicchè ogni verso successivo inizia con la nota precedente nella serie, e al tredicesimo verso si chiude il cerchio. Qui il primo verso e la prima sillaba del successivo:
Insomma, una specie di giochetto reso possibile dalla rigida applicazione della tecnica seriale. Che ci sia in tutto ciò una qualunque narrativa musicale ed un qualunque riferimento al contenuto dei versi, è come minimo opinabile (almeno a mio modestissimo avviso). 
  
In ogni caso Christian Miedl fa del suo meglio per cantarci questo povero Petrarca, già bistrattato dalla traduzione tedesca, e per di più ridotto a sghemba filastrocca… ma va bene così!  
Ora abbiamo la pianista Carlotta Lusa che ci riporta indietro nel tempo, alla stagione dell'espressionismo, con l'esecuzione dei Sex Kleine Klavierstücke op.19, una composizione atonale del 1911 (l'ultimo brano fu scritto l'indomani della morte di Mahler). Si tratta di piccoli pezzi aforistici, in tutto sono solo 75 battute (18 + 9 + 9 + 14 + 15 + 10) per una durata di poco più di 5 minuti. 
È musica – credo io – da ascoltare senza pregiudizi, ma anche senza farsi eccessive aspettative, e senza cercarvi chissà quali reconditi significati universali. E mi pare stucchevole anche la pretesa di individuarne la struttura formale, impiegando categorie del tutto inadatte allo scopo. Per dire, è stupefacente come il pezzo n°6 abbia fatto versare fiumi d'inchiostro agli analisti, tutti intenti a dimostrare – mediante l'uso di strumenti sofisticati, come le tecniche lineari schenkeriane e le teorie generative - che in realtà il brano nasconderebbe una criptica tonalità fondamentale: per gli uni, MI maggiore, per altri addirittura tre: DO, RE e LAb maggiore; per altri ancora MI minore e ancora per altri SOL maggiore… il tutto in queste 10 battute!

Siamo proprio alla paranoia più totale, perché qui è come cercare le leggi che governano un sistema anarchico! O pretendere di dimostrare che l'anarchia è in fin dei conti una semplice variante dello Stato. Dico, se uno buttasse giù note a caso, scelte con un randomizzatore, forse sarebbe capito dai cosiddetti analisti in modo più concorde (smile!)

Per fortuna Carlotta Lusa fa il suo meritorio dovere presentandoci queste pagine con la dovuta concentrazione.
Ha chiuso degnamente la serata la composizione proprio ieri diventata centenaria:

La voce (che canta-recita secondo la tecnica dello Sprechgesang) era quella di Annette Jahns
Il Pierrot, raccolta di brani su testi di Otto Erich Hartleben, liberamente tradotti dall'originale francese di Albert Giraud, è anch'essa un'opera del periodo atonale (1912). Si caratterizza proprio per l'impiego della tecnica consistente nell'applicare al canto le proprietà di accentazione tipiche del parlato (le note parlate sono individuate da una crocetta sul gambo). Qui un esempio (tratto da Der Dandy) di mescolanza di canto e parlato, dove si prescrive, in sole tre battute: cantato, parlato, sussurrato senza suono, parlato con suono (?!):

Ciò può di primo acchito apparire sgradevole ed esasperante, ma paradossalmente è invece musicalissimo (ovviamente con una voce ed una tecnica adeguate, come quelle sciorinate dalla Jahns). Certo non la pensava così Puccini, che in soldoni apostrofò questa musica come marziana (o sarà stato un complimento? smile!) 

Da incallito numerologo ed esoterista il buon Schönberg musicò 21 canzoni, ma tenendo a precisare già nel sottotitolo che sono 3-volte-7. Il parla-canto (o come altro lo vogliamo definire) è accompagnato da otto strumenti (anzi, dovremmo dire: da 7+1, il pianoforte, smile!) che però suonano insieme – ma mai comunque contemporaneamente - soltanto nell'ultimo brano, come si evince da questa tabella:
  
La Annette Jahns mostra di saperla lunga sullo Sprechgesang, dandoci del Pierrot un'interpretazione davvero coinvolgente, benissimo supportata dai ragazzi de laVerdi: Crepaldi su tutti, con flauto e ottavino; poi la bravissima e sempre sorridente Ciapponi, Saredi al clarinetto basso, Santaniello, Mugnai e Grigolato agli archi, oltre alla Lusa al pianoforte. Gran successo che porta al bis dell'ultima poesia (O alter Duft).   
   

Adesso però voglio chiudere con una citazione che già avevo proposto anni fa in occasione di un (poco onorevole, a dirla tutta) ciclo Schönberg-Beethoven alla Scala, gestito da Barenboim: si tratta di questo fulminante (e gustosissimo) pezzo di Davide Daolmi, che a mo' di prefazione all'analisi di Verklärte Nacht sciorina le sue convinzioni sulla dodecafonia e relativi… effetti collaterali. 
Convinzioni che qui confermo solennemente (smile!) di condividere al 100% !
(poi c'è anche chi la butta in vacca proprio del tutto…)


15 ottobre, 2012

Il battesimo wagneriano di Noseda

 
Il Regio di Torino ha aperto il cartellone con Wagner, come faranno altri teatri per le commemorazioni bicentenarie del 2013, e Gianandrea Noseda ha approfittato dell'occasione per rompere il ghiaccio con il mago di Lipsia, sia pure partendo da... lontano (ma avrà tempo, se vuol continuare, per avvicinarsi al Wagner serio, smile!)  
 
Ieri pomeriggio – teatro non proprio colmo - terza rappresentazione dell'Holländer, un'operina (come usa chiamarla affettuosamente Arbasino) leggera, se così si può dire in confronto a ciò che verrà dopo, anche se diventa pesantuccia per il pubblico, costretto a restare per 2 ore e 20 minuti inchiodato alla poltrona (solo con il Rheingold Wagner sarà ancora più carogna…) Chi volesse perder tempo a leggere un mio bigino, lo troverà qui.

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Dell'opera esistono (almeno, ufficialmente) due versioni: quella originale del 1843 di Dresda e quella rivisitata da Wagner nel 1860-1864 (poi vi sono interventi che l'autore fece in tempi diversi, ma che non furono oggetto di pubblicazione). Qui a Torino viene presentata l'ultima versione, quella predisposta da Wagner dopo aver composto due terzi del Ring e soprattutto il Tristan. E proprio dal Tristan fu mutuata la modifica (solo musica) del finale dell'opera.   
 
Nella versione originale, dopo l'ultima esternazione di Senta (Hier steh' ich, treu dir bis zum Tod!) il suo suicidio col tuffo in mare dalla scogliera e l'esposizione violenta del tema della redenzione (in tutta l'orchestra, in fortissimo e con pesanti colpi sincopati di timpano) seguito da quello, poderoso, dell'Olandese, si odono soltanto due secchi accordi di RE maggiore, punto e basta (come si può ascoltare in questa produzione di Bayreuth del 1984-85, da 4'40" in avanti; occhio: gli sbattimenti di ante non sono di Wagner, ma di Kupfer, smile!)
 
Invece, nella versione che ascoltiamo qui al Regio, il finale (e con esso la chiusa dell'Ouverture) è quello da Wagner arricchito con una diversa (accorciata) transizione dal tema di Senta a quello dell'Olandese - il quale tema viene enfaticamente allungato di 6 battute, con salita alla mediante e alla dominante e ritorno sulla tonica - e soprattutto con l'aggiunta delle 10 battute conclusive. Di cui le prime 4 ripropongono con grande dolcezza (in cadenza plagale, dal RE al SOL maggiore) il tema della redenzione: dolce, appunto e un poco ritenuto (come recita l'indicazione agogica) e suonato solo da flauti e oboi, su un morbido pedale dei fiati e i caldi arpeggi dell'arpa. Seguono 3 battute con il ritorno a RE maggiore sostenuto da un motivo nei violini (RE-MI-SOL-FA#, incidentalmente mutuato dalla Jupiter) che richiama l'atmosfera della chiusa della Liebestod (e anticipa quella di Götterdämmerung…) Infine le 3 battute con l'accordo perfetto di RE maggiore, che parte dal piano e cresce fino allo schianto conclusivo (come avverrà per la chiusa di Lohengrin). Musica che fa da sfondo al riemergere, dalle acque in cui si è inabissato il vascello fantasma, di Senta e dell'Olandese, abbracciati e ascendenti al cielo! (Ecco questo finale in una recente produzione rumena, da 6'50" in avanti.)
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Adesso dirò qualcosa della regìa, importata da Parigi e firmata da Willy Decker, qui ripresa - a ben 12 anni di distanza - da Stefan Heinrichs. La quale mette (direi appropriatamente) Senta al centro di tutto. Quindi scene assai minimaliste, occupate più che altro da simboli: gomene, vele, un grande dipinto raffigurante un mare procelloso (su cui compare un paio di volte un veliero) e per il resto qualche sedia e tavolo; efficaci giochi di luci; costumi abbastanza plausibili, data l'indeterminatezza dell'epoca dell'azione (unico cedimento ad una certa moda è il pastrano-DDR dell'Olandese, smile!)  
 
Dunque, Senta. Una povera ragazza schiava di un ambiente chiuso in cui è costretta suo malgrado a vivere. Il suo legame con Erik (anche lui un po' cittadino di serie-B, in quanto cacciatore in un paese di prodi marinai) è di quelli incolori e routinari. Per sfuggire alla quale routine lei non ha a disposizione altro che i sogni: e invece di un principe-azzurro che le calzi la scarpina-cristallina (cosa che la ridurrebbe ad una qualunque cenerentola, evidentemente considerata da Wagner personaggio inadatto per un dramma, oltre che già ampiamente sfruttato) lei sogna di far felice un uomo maledetto e destinato ad eterna infelicità: una figura mezzo-mitologica che qualche pittore da strapazzo deve aver dipinto su un quadretto che lei si porta dietro come una reliquia da adorare religiosamente.
 
Insomma, una schizofrenica, che come molti schizofrenici è pure presuntuosa, e quindi convinta di farcela là dove tante donne hanno già fallito (questo lo racconta lei stessa cantando la sua famosa Ballade): restare fedele al viso-pallido per tutta la vita. 
 
Peccato che spesso i presuntuosi vengano poi traditi dal puro caso, e/o da indizi fallaci; così lei, senza colpa, fa la figura dell'infedele agli occhi dell'Olandese, che la pianta in asso (però, bontà sua, perdonandola perché ancora il prete non aveva celebrato il loro matrimonio, smile!) Con ciò costringendola alla testimonianza estrema di fedeltà: il sacrificio della vita.
 
Ora, che Senta – come ci mostra Decker – si pugnali invece di annegarsi in mare non riveste particolare importanza. Caso mai si può osservare che questa chiusura dell'opera parrebbe assai più appropriata per la (musicalmente) dura versione del 1843, che non per quella sdolcinata del 1860. L'Olandese che sparisce nel nulla e la finta moralista Mary che raccoglie il suo ritratto e se lo porta via stringendolo al petto (proprio come era solita fare Senta!) giustifica l'ipotesi che per Decker Senta - pur incolpevole nei fatti – abbia comunque fallito la prova, e che altre donne avranno l'occasione di ritentare l'impresa. Sappiamo invece che la musica della versione 1860 del finale, che qui ascoltiamo, sembra proprio chiudere definitivamente il discorso con la redenzione dell'Olandese.
 
A parte questa osservazione critica (un po' bizantina, lo ammetto) mi è parsa una regìa da approvare quasi incondizionatamente.
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Sul fronte dei suoni, notizie direi incoraggianti. A partire da Noseda, che ha scrupolosamente evitato eccessi enfatici (vedi il Thielemann del recente festival bayreuthiano) e mai si è permesso libertà sui tempi, sempre tenuti con grande coerenza (e questa è la cosa più importante).
 
La Pieczonka ha confermato la sua affinità elettiva col personaggio di Senta, nella recitazione ma soprattutto nel canto: per lei grande trionfo.
 
Trionfo tributato anche a Doss, pur un filino impacciato (a mio modesto avviso) nelle sbifide arie che Wagner mette in bocca all'Olandese.
 
Più che discreto Gould, un Erik sufficientemente efficace e dalla voce molto passante.
 
Cosa che non mi sento di dire di Humes, per me poco adatto al ruolo del vecchio marpione Daland.
 
Bandera e Ombuena se la sono cavata più che bene nei loro ruoli non proprio banali, soprattutto il secondo, efficace nella canzoncina d'esordio.
 
Bene i cori, anche – e non è poco – per aver evitato sguaiatezze e schiamazzi da Oktoberfest: quello di Fenoglio (i/le Norvegesi) e quello di Chiavazza (gli Olandesi, dislocati per l'occasione… sottocoperta!) 
 
In sintesi: ancora una buona prova del Regio, che si conferma struttura oggi fra le più solide nel piuttosto dissestato – ahinoi - panorama italico del teatro musicale.


12 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.5


Prima di riferire sul concerto della stagione principale, mi sembra doveroso ricordare la esemplare prestazione degli archi de laVerdi barocca che mercoledi sera, nella suggestiva cornice di Sant'Ambrogio, hanno eseguito le vivaldiane Stagioni (più il movimento iniziale del Terzo brandeburghese, come bis) in occasione di un meeting internazionale di preparazione dell'Expo 2015. Sugli allori il Direttore Ruben Jais e il violino di Gianfranco Ricci, che hanno presentato agli ospiti stranieri una delle (non tantissime, ahinoi) facce interessanti – e soprattutto pulite! - della città di Milano.

Per la terza settimana consecutiva è Gaetano D'Espinosa a salire sul podio dell'Auditorium per il quinto concerto della stagione principale (questo appuntamento era pianificato in origine, a differenza dei due precedenti, determinati dall'anticipata maternità di Zhang Xian). 

Concerto che accosta due autori italiani contemporanei (in senso lato…) al vetusto Johannes Brahms che nel 2013 (7 maggio) compirà 180 anni e del quale verrà presentata nella stagione l'integrale delle sinfonie e dei concerti solistici (e anche altro). 

Ad aprire la serata è una prima assoluta, una composizione per orchestra di Orazio Sciortino – siciliano come il Direttore; lui di Siracusa, D'Espinosa di Palermo; lui pianista, l'altro violinista; entrambi giovani, per non dire giovanissimi, 28 e 34 anni – opera dall'ambiguo titolo Träume (Trauer) Stimmen. Come dire che i sogni si accompagnano alla desolazione, se non addirittura al lutto! Prima del concerto l'Autore in persona ha parlato di sé e della sua opera, raccontandone l'ispirazione, la nascita, le motivazioni interiori: interessantissima presentazione, che ha svelato una personalità di grande spessore. Certo è difficile inventare qualcosa di nuovo in un campo dove pare essere già successo tutto e il contrario di tutto: tutto ciò che c'era da rompere, è già stato rotto negli ultimi 50 anni, questa una delle frasi di Sciortino che mi ha colpito di più, insieme al suo prendere le distanze da gente come Stockhausen

Però che la sfera onirica/inconscia possa ispirare musica non è certo una novità: già 120 anni orsono un tale Gustav Mahler confidava che l'ispirazione a comporre gli veniva là dove gli si manifestavano le oscure sensazioni… Sciortino ci evoca quelle da lui vissute nottetempo con un brano di 10 minuti scarsi (per fortuna mica di 100 come Mahler, smile!) in cui sentiamo suoni più o meno gradevoli mischiati a rumori piuttosto fastidiosi: insomma i sogni e il lutto!

Applausi di incoraggiamento a lui e di premio per l'abnegazione all'orchestra.

Segue poi Domenico Nordio ad interpretare con il suo violino il Secondo Concerto (detto I Profeti) di Mario Castenuovo-Tedesco. Opera del 1933 dedicata al grande Jascha Heifetz con scoperti intenti programmatici, confessionali e financo politici: si era in tempi di crescente antisemitismo (di lì a pochi anni il compositore dovrà abbandonare l'Italia per sfuggire alle leggi razziali fasciste e lui e Heifetz si ritroveranno in California, accomunati dallo stesso destino di esuli) e Castelnuovo intendeva offrire la sua opera alla causa ebraica. 

Composizione che richiama antichi canti e modi ebraici, liberamente rivisitati con la sensibilità di un uomo del '900, che peraltro si era tenuto volutamente distante dalle avanguardie più radicali (basti pensare che pochissimo dopo Alban Berg comporrà il mirabile Alla memoria di un Angelo…)

Costruito nella classica forma tripartita, ad ogni movimento è associato idealmente un Profeta: Isaia, Geremia ed Elia. È il solista ad evocarne la personalità, mentre all'orchestra è riservato – lo dice l'Autore – il ruolo del popolo, della folla con le sue diverse reazioni alle profezie.
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Nel primo movimento, dopo un'introduzione lenta della sola orchestra che presenta il primo tema, il visionario Isaia è raffigurato dal solista con due temi, il primo in LA minore, il secondo in DO maggiore:

Temi che sono poi sottoposti a continue variazioni, modulazioni e sviluppi. Appare anche un nuovo motivo (espressivo e dolente) che tornerà anche nella finale ricapitolazione:

Il tempo di mezzo raffigura il profeta di sventure, Geremia. Sulla chiave di FA minore è il violino solista ad esporre subito una mesta melopea:

Che viene ripresa e ampliata dall'orchestra, ed è seguita poi da un altro motivo, caratterizzato da dolenti acciaccature:

Compare poi una terza idea, che tornerà nel corso del movimento:

Tutte vengono sviluppate in un'atmosfera sempre calma, ad eccetto di un breve intermezzo Poco agitato.

Il finale è dedicato al furore e alla severità di Elia (quello che scannò senza pietà qualche centinaio di sacerdoti di Baal, tanto per dire…) Si tratta di una specie di Rondo, dove il violino espone subito il tema principale, in tempo Fiero ed impetuoso, con frequenti folate del solista e grandiosi interventi a orchestra piena. 

In uno di questi compare un motivo nei corni, poi ripreso dal solista e dai fiati, che a prima vista non ci ricorda nulla, ma poi, verso la fine, quando c'è uno squarcio in tempo Andante e il violino lo suona in primo piano, ecco che ci ricorda qualcosa di già udito (sarà solo un caso?) nel cattolico Requiem di Verdi:

E proprio riprendendo ed espandendo enfaticamente questo tema il concerto si avvia a chiudere in esultanza, in un luminoso DO maggiore.
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Effettivamente si tratta di un'opera che non merita il dimenticatoio in cui è finita in Italia e dobbiamo ringraziare Nordio per avercela proposta. Lui si dice innamorato di questo concerto - lo porta in giro per il mondo - e ne dà un'interpretazione di alto livello (che ci metta tutta la cura possibile lo dimostra lo spartito che, per sicurezza, si tiene davanti).

Il pubblico (ahinoi, non oceanico) dell'Auditorium gli tributa grandi applausi che lo convincono a concedere un magico bis bachiano. Poi, giù nel foyer, viene complimentato da una collega che è un'altra abituale ospite de laVerdi, Francesca Dego, in compagnia di Daniele Rustioni (a proposito: ma che bella coppia!) 

Si chiude con la Terza di Brahms, quella che porta l'etichetta Faf (Frei aber froh) che noi potremmo tradurre – con un pizzico di apologetica nostalgia – libero e giocondo (smile!) E di sicuro è musica da cui trasudano pace (magari un filino… rassegnata, ecco) ed appagamento; forse scritta da un Brahms più sdraiato sul sofà che seduto al pianoforte!

Però, accipicchia, che musica! E non bisogna essere Clara Schumann per apprezzarla fino in fondo. Ancora una volta Gaetano D'Espinosa conferma le sue eccellenti qualità, con una direzione autorevole, a tratti fin troppo plateale nel gesto magari, ma che cava fuori tutto il meglio da questa partitura, che fra le quattro sinfoniche del burbero amburghese è forse quella che possiede l'equilibrio più mirabile.

Un bravo! a tutti quanti… ed ora ci aspetta la colossale Ottava dell'organista di SanktFlorian. (prima però anche un po' di Schönberg!)

05 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.4


Il quarto concerto dell'Orchestra Verdi ha decisamente assunto un sapore francese, rispetto a quello prevalentemente russo, programmato in origine. È presumibilmente la perdurante assenza di Zhang Xian ad aver consigliato la sostituzione del Poema dell'estasi di Scriabin con Debussy.

Ed è appunto Debussy che apre la serata con un'opera (relativamente) giovanile (1887): la Suite intitolata Printemps. Quella che viene eseguita qui è la versione orchestrata da Henri Büsser ben 25 anni dopo la composizione di quella per pianoforte e coro. Coro (senza testo) che fu espunto – Debussy concorde – dalla versione per orchestra (qui Boulez). Una ricostruzione con orchestra e coro è stata fatta più recentemente da Emil de Cou a San Francisco.
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È ancora un Debussy wagneriano quello che compone questo pezzo, anche se si riconosce da lontano il colore dei suoi suoni (è il flauto solo a presentarsi subito, come nel più famoso, successivo Faune) come pure la sua… cassetta degli attrezzi, a cominciare dalla scala pentatonica su cui è costruito (precisamente sui 5 tasti neri del pianoforte, FA# maggiore) il tema fondamentale del brano:

Brano che è suddiviso in due parti, la prima delle quali è caratterizzata da innumerevoli modulazioni, tutte aventi come base il tema principale, con pochi cambiamenti di ritmo e di atmosfera; si chiude con un accordo perfetto di FA# degli archi.

La seconda parte si apre – dopo una vaga reminiscenza del tema fondamentale, con una chiara citazione wagneriana: sembra di essere all'inizio del second'atto dei MeistersingerMa passa poco tempo e il tema fondamentale esplode, enfatico e grandioso nei corni, in RE maggiore:

Dopo il suo sviluppo, in cui pare di udire il tema del finale della Sinfonia in RE minore di Franck, torniamo a... Norimberga (dove appare persino… Loge) quindi ecco un nuovo motivo, piuttosto leggero e quasi ingenuo:
Anch'esso si sviluppa, prima di ridar posto al tema fondamentale, ripreso in LA maggiore dai violoncelli. Gli subentra il secondo tema riproposto a diverse altezze, finchè si giunge alla perorazione finale dei due temi in contrappunto.

È infine il tema udito fin dall'inizio a chiudere con grande enfasi e fracasso.
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Segue ora Ravel con il suo celebre La valse. A fronte della partitura l'Autore ci fornisce una sommaria descrizione ambientale, corredata da assai precise coordinate spazio-temporali:

L'indicazione A corrisponde in partitura alla battuta 67 (numero 9 di lettura) prima della quale avevamo udito una sorda introduzione - proprio ad evocare una specie di nebbia o di nuvolaglia - in cui dall'indistinto tappeto degli archi (con sordina) aveva cominciato ad emergere, nel colore scuro dei fagotti, il primo tema, in RE maggiore. Che compare proprio quando le brume si diradano, evocando una gran folla volteggiante in un salone smisurato:

Dopo che il tema, piuttosto languido, è stato adeguatamente sviluppato, vi subentra un secondo, più energico (gli archi rimuovono via via le sordine) e con ritmo assai più marcato:


Questa prima parte del brano termina alla battuta 139 (numero 17 di lettura) dove troviamo l'indicazione B e dove il walzer precedente si chiude con 9 battute in fortissimo di tutta l'orchestra, per lasciare spazio al successivo sviluppo. Nel quale troviamo un nuovo tema, presentato subito dall'oboe, poi ripreso dagli archi:
È seguito da una sua derivazione, che modula a LA, poi a SOL, per tornare infine al RE:

Qui ecco un'improvvisa esplosione, un colpo tremendo di grancassa e timpani (più fagotti, controfagotto e contrabbassi) seguito da una rumorosa fanfara di tutti gli ottoni, che pare l'irruzione in sala di un drappello della guardia imperiale; insomma, una cosa che a ben vedere ha assai poco di straussiano, e se qualcosa ha di viennese, questo è caso mai più vicino allo Schattenhaft della settima di Mahler:
Tutto questo fracasso introduce una perorazione in SIb di una nuova variante del tema precedente:

Che è poi seguito da un nuovo motivo, più danzabile, in MIb (che sarà ripreso con grande enfasi nella ricapitolazione):

Dopo la sua ripetizione, gli strumentini creano un'atmosfera più rarefatta, caratterizzata da un motivo leggero e saltellante, esposto dapprima dagli oboi:

Atmosfera che però dura poco, rotta ancora da pesanti accordi di tutta l'orchestra (semiminima puntata – croma – semiminima) intercalati da folate di musica, che evocano l'infrangersi di ondate dell'oceano su una scogliera… (questa figurazione tornerà, in forma e frastuono moltiplicati, nel finale) finchè si arriva all'esposizione del motivo (due crome - minima) che dominerà il seguito, un motivo che nell'attacco e nel ritmo pare vagamente richiamarsi all'Ohne mich dello Strauss bavarese, ma con sfumature espressioniste:
Il tema è successivamente e corposamente sviluppato anche dagli archi e porta ad una nuova rarefazione dell'atmosfera, con sottili modulazioni, incluso un intervento di due violini soli, prima di un nuovo ritorno di folate di vento, soprattutto nei fiati, che chiudono - si potrebbe dire - l'esposizione

Ora inizia la sezione conclusiva del brano, una specie di sviluppo e insieme di ricapitolazione di ciò che si è udito in precedenza. Dapprima si torna quasi all'inizio, con l'atmosfera nebulosa da cui emergono i fagotti, poi i vari temi fanno capolino, risentiamo le folate interrotte dagli schianti (semiminima puntata – croma – semiminima) fino quasi ad un instaurarsi del silenzio. Che è rotto da sospiri – in levare, perché siamo sempre in un walzer! - di fagotti e controfagotto, quasi ansimanti, ad introdurre il tema (due crome - minima) che aveva caratterizzato l'ultima parte dell'esposizione. 

Questo tema adesso si fa sempre più incalzante, passando da fiati ad archi e viceversa, poi uscendo da tutti gli strumenti, fino ad un tonfo caratterizzato da tre poderose note discendenti degli ottoni, ripetute, che scatenano l'orgiastico finale, imperniato sulla figurazione semiminima puntata – croma – minima - semiminima, che imperversa di continuo fino alla catastrofica conclusione, ra-ta-pa-ta/pùm
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Una cosa è certa: alla Corte imperiale nell'anno di grazia 1855 musica come questa avrebbe fatto scappare gli invitati a gambe levate! Quanto al compositore, avrebbe fornito il pretesto a Franz Joseph I von Österreich per procrastinare di decenni la riconversione dello Spielberg da carcere in caserma (smile!)
   
Davvero rimarchevole la prestazione dell'orchestra, trascinata da un sempre più convincente Gaetano D'Espinosa, che ha mostrato grande sicurezza e autorevolezza, dirigendo entrambe le partiture a memoria.

Partitura che si è invece messo davanti per la strafamosa Sacre di Stravinski. Una cosa che al severo (e soprattutto tedesco) Theodor Wiesengrund Adorno faceva venire l'orticaria; e per la verità suscitò tumulti di piazza al suo primo apparire, ma subito dopo entrò, come si merita, nel novero degli autentici capolavori in musica.

Questa una pagina (dalla Processione dei vecchi saggi) che è rimasta un esempio insuperato di poliritmìa:




Grandissima prestazione dei ragazzi de laVerdi e del giovane Direttore (che è anche violinista, ex-Konzertmeister a Dresda, oltre che compositore) che pare avere stabilito un feeling particolare con l'orchestra, testimoniato dall'abbraccio scambiato con Luca Santaniello dopo questa maiuscola esibizione. 
  
E sarà ancora lui a proporci Brahms, preceduto da due nostri contemporanei (o quasi...) al prossimo appuntamento.

01 ottobre, 2012

Peter Eötvös fa parecchio rumore alla Scala


Il concerto di ieri sera della Filarmonica (Peter Eötvös sul podio, in un Piermarini non propriamente affollato) era di quelli che richiedono, oltre che orecchie ben allenate, anche grandissime doti di sopportazione e spiccata propensione al sacrificio. Dico, un programma dove il brano più abbordabile è un concerto di Bartók non lo si dava nemmeno ai tempi di Abbado e della rieducazione forzata alla musica contemporanea (smile!) Mi si obietterà: ma allora, che ci sei andato a fare? sei proprio masochista. Al che rispondo: più o meno… sono uno che fa i fioretti (così li chiamava mia nonna) per guadagnarsi il paradiso (stra-smile!)

La prima parte del concerto – tutto sommato digeribile – ha presentato Ives e Bartók, due rappresentanti (soprattutto il secondo) di quel novecento che cercava vie nuove in musica senza uscire (troppo) dall'ambito delle regole sintattiche e semantiche della tonalità.

In The unanswered question (1908) Charles Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi: l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente con valore di note (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima; la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni ma, trattandosi qui di musica, a me questo breve brano appare come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi, e allo stesso tempo contiene un messaggio abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica cosiddetta moderna avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza

Intanto cominciamo ad osservare la partitura (qui siamo alla quinta risposta) che ci dice cose interessanti:

Gli archi (la quiete cosmica) si muovono su accordi perfetti (per lo più di SOL maggiore, ma anche DO, FA): già questa è una chiara presa di posizione dell'Autore riguardo al ruolo dell'armonia classica, che secondo lui preesiste e sopravviverà alle domande e alle risposte!

Si noti che la tromba - che espone la domanda - ha il rigo sempre perfettamente allineato a quello degli archi (vale a dire che è comunque rispettosa almeno delle universali regole di convivenza); mentre i flauti che cercano la risposta entrano (e proseguono) sempre più fuori tempo (apperò!)

Tornando alla domanda: a ben vedere non è formulata sempre allo stesso identico modo; basta osservare le 7 forme che assume per notare piccole, ma significative differenze:


Tanto per cominciare, l'ultima nota del motto non è sempre la stessa: per tre volte (1-3-5) è il DO, per 4 volte (2-4-6-7) è il SI (peraltro noto che molti direttori, compreso Eötvös, fanno chiudere l'ultimo richiamo sul DO… vai a sapere se è una diversa versione dell'Autore); le altre quattro note sono assai dissonanti rispetto all'armonia cosmica sottostante, però grazie all'enarmonia si possono leggere come gradi della scala maggiore di SI (sensibile, sopratonica, sottodominante, mediante); e mentre c'era stato per le prime 6 domande un regolare alternarsi della chiusura su DO e SI, l'ultima domanda - alla quale i flauti, caduti nella più completa disperazione, non sapranno più nemmeno provare a dare risposta – si chiude ancora sul SI: guarda caso la mediante di SOL, quindi in consonanza perfetta con l'accordo perfetto di SOL degli archi che si perde nelle profondità cosmiche!

Non c'è bisogno di sottolineare come invece tutte le note delle risposte dei flauti siano, oltre che disallineate e dissonanti con il pedale degli archi, anche dissonanti fra loro, cioè intrinsecamente estranee all'armonia tradizionale, anche la più… forzata. E addirittura l'ultima loro risposta isterica inizia scimmiottando la domanda medesima (questo lo vedo proprio come il finale sberleffo che Ives riserva al loro disordinato agitarsi…)

Guarda caso, nel 1973 il grande Lenny Bernstein chiudeva il suo ciclo di lectures 
ad Harvard intitolato al brano di Ives (sono 6 lezioni, di cui almeno la quinta e la sesta chiunque voglia documentarsi sull'evoluzione della musica nel secolo scorso dovrebbe impararsi a memoria…) esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche
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Eötvös dispone i 4 flauti davanti a lui, gli archi assai dietro e la tromba nel palco reale. Tiene – direi apprezzabilmente - tempi assai larghi e ottiene dagli archi un bel pianissimo (ppp) sul quale spicca spettralmente il suono della tromba. Esecuzione direi proprio impeccabile.

Ecco poi Bartòk con il suo Secondo concerto per pianoforte, interpretato dal 55enne Pierre-Laurent Aimard. Il quale si tiene, cosa piuttosto insolita per un solista, lo spartito sul leggìo. Così come è insolita – ma mi sentirei di approvarla, date le caratteristiche della partitura – la disposizione dell'orchestra: grancassa, tamburi, triangolo e timpani al proscenio, a sinistra; ottoni davanti a destra: legni davanti al podio; e gli archi sul fondo.

Esecuzione che non mi è dispiaciuta, direi senza infamia né lode (ma certo la coppia Boulez-Pollini di un paio d'anni fa mi aveva fatto tutt'altra impressione!) 

Dopo l'intervallo, arrivano… gli esercizi spirtuali (smile!)

A cominciare proprio dal brano del Direttore, zeroPoints. Incredibile, ma vero: è lo stesso autore a certificare il suo obiettivo di rappresentare in musica (anche) i rumori, come ad esempio i fruscii prodotti dalle puntine dei vecchi giradischi! Cioè a pretendere di portare a livello artistico di musica ciò che è semplicemente un aspetto fastidioso della tecnologia, che con tanta fatica la tecnologia medesima ha cercato di eliminare (lo stesso principio guidava Stockhausen a comporre assurdità musicali, anzi propriamente rumoristiche, come l'Helicopter-Quartett!) 

Poi, da buon austro-ungarico, il nostro ci infila anche un po' di walzer, che non guasta. Una cosa è certa: deve trattarsi di musica assai difficile, se persino il suo Autore la deve dirigere sfogliando la partitura! A me – con tutto rispetto - sembra musica che lascia la domanda di Ives senza risposta (smile!)

La conclusione del concerto era affidata a Edgard Varèse, che con Amériques 
pretese a sua volta di far passare per musica seria un'accozzaglia di motivi (impossibile chiamarli temi) presi dai suoni che il nostro sentiva entrare dalle finestre del suo appartamento, o che giungevano alle sue orecchie da bar, locali notturni o kermesse di strada in quel di Manhattan. Così sentiamo echi zigani, spagnoleschi, indiani, mescolati al suono di sirene dei docks o delle auto della polizia. Magari il tutto rivisto in sogno (o incubo, forse) e messo sul pentagramma senza apparente logica, né narrativa. 

Un brano che dura 23 minuti, ma potrebbe indifferentemente durarne 230, oppure – e per me sarebbe già troppo, smile! – due e trenta.

In questi casi è difficile separare in modo chiaro l'applauso doveroso per i Musikanten (che magari pure si divertono a suonare roba come questa) dal pollice verso per l'Autore. Così non è chiaro se i bravo che scendevano dal loggione erano indirizzati a direttore e orchestrali o – post mortem – anche al povero Varèse. Nel dubbio, mi tacqui. (E spero soprattutto che mia nonna avesse ragione…)