bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

29 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°38 – Andrea Chénier (+Balotelli)


L’ultima fatica stagionale per laVerdi è stata uno specialissimo appuntamento con l’opera: Andrea Chénier.

Non è un primo incontro in assoluto, chè l’orchestra già in passato si è cimentata con il dramma di Illica-Giordano (e lo ha inciso, con la coppia Dessì-Armiliato) ma certo segna un importante passo nell’evoluzione dell’orchestra verso traguardi sempre più ambiziosi.

Sul podio Jader Bignamini, che è entrato qualche anno fa a laVerdi come strumentista (di clarinetto piccolo) e si è poi specializzato nella direzione: oggi è Direttore Associato dell’Orchestra, di cui è in pratica il preparatore.

L’Andrea è l’opera che diede notorietà al 29enne Umberto Giordano, con un grande successo alla prima in Scala (28 marzo 1896). Nemmeno un anno dopo (5 febbraio 1897) analogo successo arrise all’opera ad Amburgo, dove Gustav Mahler (in procinto di trasferirsi a Vienna) ne diresse la prima tedesca.

Vi si sente l’irresistibile influsso wagneriano (il compositore ammise di essere stato praticamente stregato da Lohengrin): dalla melodia infinita alle modulazioni continue (tanto che Giordano – piuttosto bizzarramente, quasi anticipando l’atonalismo – sulla partitura evita ogni indicazione di accidenti in chiave) al richiamo di atmosfere da Tristan e persino da Parsifal.

Splendida l’esecuzione dell’Orchestra, che Bignamini guida col piglio di un direttore navigato, e notevole quella del Coro di Erina Gambarini.

Sul fronte delle voci, Marcello Giordani ci mette tutta la sua esperienza e il suo mestiere per renderci uno Chénier appassionato e trascinante, facendo passare in secondo piano i problemi di usura del suo mezzo.

La sua pupilla, l’enorme (fisicamente parlando) Natalie Bergeron è stata una Maddalena più che discreta: è giovane e non potrà che migliorare, perché la voce c’è e come!

Alberto Gazale, nei panni di Carlo Gérard (questo personaggio dalla natura cangiante: servitore, poi rivoluzionario, quindi cinico approfittatore del suo potere, un po’ come Scarpia, ma alla fine pentito e altruista) è stato il migliore della compagnia, per portamento ed espressione.

Bravissima anche Clara Calanna, nella parte piccola ma importante di Madelon; e poi, diciamo la verità, l’esecuzione in forma di concerto ci ha dato la possibilità di ammirarne anche le procaci forme, cosa che a teatro ci sarebbe preclusa, data la natura stessa del personaggio di nonna vecchia e morente (smile!)

Tutti su un livello accettabile gli altri protagonisti: in primo luogo la Bersi di Valeria Sepe; e poi Lara Rotili (Contessa di Coigny); Mattia Denti (Roucher, Fouquier Tinville e Maestro di casa); Giovanni Guagliardo (Mathieu); Francesco Pittari (Un incredibile e Abatino); Gianluca Tumino (Fléville); Emanuele Cordaro (Schmidt e Dumas).

Applausi a scena aperta per Giordani, Bergeron e Gazale, dopo le rispettive arie principali; grandi applausi al termine della prima parte (Quadri I e II) dove Giordani ci aggiorna su Italia-Germania (1-0 del Balotelli, a quel momento).

Ovazioni a non finire per tutti al termine dell’opera, dopo ripetute chiamate. Qui è Bignamini a chiudere con l’annuncio del trionfo azzurro: 2-0! (Il punteggio preciso me lo aggiornerà, affiancandomi ad un semaforo sulla circonvallazione interna, un ragazzo filippino, sul suo scooter attrezzato con la caratteristica cassa gialla da trasporto di pizza a domicilio… In Corso BuenosAires, sventolio di bandiere tricolori, agitate da gente dai tratti cinesi, cingalesi, magrebini, centroafricani e andini: insomma italiani che qualcuno, qui al nord, insiste ancora a definire… nemici della patria).   

Chiusa la stagione concertistica principale e dato appuntamento per la prossima (che come al solito aprirà i battenti alla Scala il 9 settembre) laVerdi resta aperta per l’estate con una simpatica iniziativa organizzata in collaborazione con il Comune di Milano (come si vede che c’è una Giunta diversa dal passato!) 

24 giugno, 2012

Maschere a Torino


Quarta replica ieri al Regio del Ballo verdiano, in una ripresa dell’allestimento di qualche anno fa, con regìa dell’italo-yankee – Direttore artistico del Massimo palermitano - Lorenzo Mariani. Trasmessa – in prima – martedi da Radio3 e poi (anche in streaming, ohibò) giovedi da RAI5.

Che la torbida vicenda dell’attentato a Gustavo III di Svezia dovesse diventare oggetto di libretti per opere teatrali era quasi una predestinazione (smile!) dal momento che il luogo in cui il Re venne sparato alla schiena da un suo militare (Jacob Johan Anckarström) durante un ballo mascherato, il 16 marzo 1792 (morirà 13 giorni dopo) era precisamente il Teatro Reale dell’Opera che lo stesso Re, amante di letteratura e musica, aveva fatto costruire 10 anni prima:

Invece, che il movente dell’attentato fosse di natura sentimentale (le presunte corna che il Re avrebbe fatto al suo militare) pare frutto della fervida fantasia di un librettista come Scribe (autore del testo musicato da Auber un quarto di secolo prima di Verdi, e preso a modello da Antonio Somma e prima ancora da Cammarano per Il Reggente di Mercadante): sembra infatti che il Re (pur avendo avuto una moglie, destinatagli per ragioni dinastiche quando lui aveva… 5 anni) fosse un incallito omosessuale! Il che potrebbe gettare una certa luce sul personaggio – inventato pure quello – di Oscar…

Quanto al trasferimento dell’ambientazione e dei protagonisti (imposti, come noto, dalle solerti censure di Napoli prima e Roma poi) va riconosciuta a Somma (ma anche a Verdi che ci mise lo zampino) una notevole perspicacia, essendo lui riuscito a trovare uno scenario – pur di là dall’Atlantico, con annessa retrodatazione di un secolo e con personaggi non regali – sul quale far calzare quasi a pennello tutti gli aspetti realistici e financo storici della vicenda svedese.    

Ad esempio, la questione della sibilla Ulrica. La vera Ulrica Arfvidsson visse fino alla fine del ‘700 in un appartamento di Stoccolma, esercitandovi normalmente la professione di indovina, addirittura rispettata e tenuta in gran considerazione anche dai nobili e dallo stesso Gustavo III: fu Scribe a inventarsi – poco plausibilmente - la storia della sua condanna all’esilio, giusto per colorire un pochino le motivazioni del Re a farle visita. Invece Somma, nella sua forzata trasposizione, riuscì a fare di meglio: infatti proprio alla fine del ‘600, quando ancora il Massachusetts era colonia britannica, vi erano proliferate in modo assai vasto le pratiche di stregoneria, riguardo le quali ci sono rimasti documenti ufficiali di corposi processi, come i Salem Witch Trials; quindi il bando proposto per Ulrica nel libretto italiano è assai più realisticamente (e storicamente) plausibile, rispetto a Scribe. (In compenso Somma – che pure era un libero pensatore e irredentista - non perse l’occasione per buttare lì, en passant, un luogo comune razzista, mettendo in bocca al Giudice uno sprezzante: S'appella Ulrica, dell'immondo sangue dei negri).

Quanto al protagonista, che Somma trasforma dal Re di Svezia nel Conte di Warwich, governatore di Boston, l’unico indizio di una certa attinenza storica porta a tale Robert Rich, secondo Conte di Warwich, che si occupò a lungo di amministrazione di colonie, divenendo anche proprietario di immensi latifondi nell’est dell’America e azionista di diverse società commerciali (peraltro morì nel 1658, quindi assai prima della fine del secolo XVII in cui Somma colloca la vicenda). Invece un governatore di Boston di fine-600 che ebbe diversi problemi politici con i suoi militari (un po’ come il Riccardo di Somma) fu tale William Phips (che peraltro morì nel suo letto, in Inghilterra).

Comunque sia, va dato atto a Somma di aver messo in piedi, date le circostanze, uno scenario più che plausibile – e soprattutto coerente con le aspettative di Verdi - per il suo Ballo. Negli ultimi decenni – assenti censure borboniche o papaline – abbiamo assistito anche alla proposizione dell’idea originale, con ambientazione e personaggi svedesi, a cominciare dall’allestimento del Maggio nel 1963, ripreso alla Fenice nel 1999.

Ebbene, per giustificare la parcella, Lorenzo Mariani si inventa qualcosa di diverso ancora, per la verità non ben definito. «L’azione non si svolge nel Settecento americano come previsto dal libretto, ma è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del ‘900: come se il governatore Riccardo fosse il viceré dell’India o di un’altra colonia». Questo leggiamo sul comunicato-stampa del teatro.

Ora, a parte che il Settecento americano non sta né nel libretto di Somma (dove è un Seicento) né in quello di Scribe (dove è svedese) l’ambientazione di Mariani non sembra nemmeno di 80-90 anni fa, come lui sostiene, ma genericamente collocata in tempi moderni e in luoghi indecifrabili o del tutto immaginari, e con personaggi ancora meno storicamente caratterizzati. Il che può anche fare poco danno, stante il contenuto del dramma, decisamente orientato alla sfera dei sentimenti privati assai più che a quella delle pubbliche istituzioni. (Però bisognerà pur ricordare ai registi quanto Verdi ci tenesse ad avere un soggetto con solide basi storiche, che conferissero al plot, e quindi alla musica che lui ci componeva sopra, un’aureola di importanza e un pedigree di alto livello – proprio in quel periodo Verdi pensava insistentemente a una cosuccia tipo Re Lear!) 

Ma non si vede d'altronde quale valore aggiunto porti una regìa come questa, che ci trasferisce in una specie di Repubblica di Bananas e in ambienti che sanno più di avanspettacolo che di opera seria, per cui, se lo spettatore facesse mente locale al testo (costato tanta fatica al povero Somma) dovrebbe sghignazzare ad ogni piè sospinto, tanta e tale è la dissociazione fra ciò che si ascolta e ciò che si vede.

Insomma, caro Mariani, potevi fare di più e di meglio, lasciatelo dire! Eppure, volendo proprio-proprio applicare i principi del Regietheater e portare la vicenda ai giorni nostri per rendercela più digeribile, di spunti ce ne sarebbero assai. Ad esempio: fare di Riccardo il Sindaco di una cittadina di provincia, il cui Segretario comunale sia Renato, dotato di moglie-gnocca, con Oscar nei panni del Messo comunale, Sam&Tom in quelli di due Consiglieri di minoranza, e Ulrica impersonificata da una pescivendola che a tempo perso scrive oroscopi sul giornalino locale. Oppure ispirarsi al mondo del business, dove Riccardo è il CEO di un gruppo industriale, Renato il suo General manager (basta che abbia una moglie-gnocca) Oscar il Public-relations manager, Sam&Tom due Executives licenziati in tronco e Ulrica la responsabile del Forecasting del gruppo. Un altro ambientino da prendere di mira potrebbe essere la struttura di potere della Chiesa Cattolica (dove magari al posto della moglie-gnocca si metta un qualche efebo canadese…)

Le scene (a parte la conclusiva mascherata, fin troppo carica di colori e festoni) sono anonime e fredde. La qual cosa si addice, più o meno, esclusivamente all’ambiente del campo dei patiboli del second’atto (con tanto di cappi pendenti) ma che per il resto pare del tutto fuori luogo.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi principali, va ricordato che il Riccardo di Somma-Verdi non è un Re, vero, ma soltanto perché la censura lo impedì, mentre ha di fatto e precisamente tutti i tratti del Gustavo III di Scribe, da cui fu mutuato quasi alla lettera: un sovrano accentratore sì, ma illuminato, aperto a riforme e – come nella realtà – amante dell’arte e della cultura. I suoi tratti gioviali e persino canzonatori (vedi i rapporti con Ulrica o la propensione al divertimento) sono comunque sempre improntati a senso estetico e nobiltà, mai sguaiati o truculenti. Purtroppo non è ciò che Mariani ci presenta, mostrandoci da subito un Riccardo che assomiglia, più che a un nobile sovrano, ad un parvenu di campagna, uno che balla sui tavoli e tratta i collaboratori – direttamente o per interposto-Oscar – come burattini. Col che diventano poi incoerenti o poco verosimili i suoi comportamenti nelle successive scene serie (Amelia e finale).       

Va un pochino meglio con Renato, di cui viene peraltro esagerata la pur comprensibile ira, all’inizio dell’atto conclusivo, con l’appartamento letteralmente messo a soqquadro, fra letti sfasciati e sedie capovolte: non è propriamente questo ciò che di Renato ci trasmette il testo e, soprattutto, la musica di Verdi! 

L’Oscar di Mariani è sufficientemente spiritoso, come da copione; come detto, sono censurabili alcuni suoi atteggiamenti gratuitamente irriguardosi verso altri personaggi (il Giudice, in primis): in fin dei conti lui è un paggio tipo-Cherubino, non un buffone tipo-Rigoletto…

Quanto ad Amelia, lei è obiettivamente personaggio enigmatico e dalle diverse possibili interpretazioni: Mariani semplicemente evita di prendere una qualunque posizione, presentandoci una donna che pare invertebrata e sulla quale gli eventi, pur drammatici, scorrono come acqua sul cristallo.

La figura dell’indovina Ulrica ha la sufficiente e dovuta profondità. A proposito di Ulrica, nel libretto di Somma (ma la cosa è praticamente copiata da Scribe) c’è un’allusione fatta da Amelia - quando realizza che il marito e i congiurati hanno deciso la morte di Riccardo - alla possibilità di sventare l’attentato tramite la strega (Forse potrallo Ulrica): poi però la cosa cade totalmente nel nulla, e resta lì, come un filo pendente che non si annoda da nessuna parte…

In ogni caso Mariani si merita un ringraziamento d’obbligo, non fosse altro che per averci risparmiato cose così… e anche cose-cosà!
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Sul fronte musicale, anche nel Ballo Verdi introduce, pur in modo parsimonioso, alcuni precisi rimandi tematici, il principale dei quali è ovviamente quello che riguarda Riccardo e il suo anelito per Amelia; lo sentiamo già nel breve preludio (esposto tre volte, prima in RE, poi in LA, poi ancora in RE maggiore):

E quindi subito cantato dal protagonista, sulla famosa La rivedrà nell’estasi (in FA#):


E ricompare poco dopo, nei pensieri di Riccardo, quando entra Renato. Lo risentiamo nel terzo atto, suonato dai violini (in LAb) all’inizio del monologo di Riccardo, e poi ancora nel canto del protagonista, in FA maggiore, alla fine del famoso Ma se m’è forza perderti:

Da ultimo, un suo inciso compare sulle parole Sin che tu m’ami, Amelia, e poi Non ho che te nell’anima, durante l’estremo, straziante incontro con l’amata:

E legato ad Amelia è un altro motivo che ricorre un paio di volte: il tema (in MI maggiore) sul quale lei canta la sua implorazione nell’antro di Ulrica (una melodia che sembra – certo casualmente - evocare la wagneriana Elsa) viene riesposto (in RE maggiore) dal flauto e poi dagli archi, nel Preludio all’Atto II, nel momento in cui la donna si inginocchia e prega, subito prima di entrare nel campo dei patiboli:

Ma il nesso più sottile e quasi rabbrividente, perché non esplicito ma sotterraneo, è quello che collega il tema dell’aria di Riccardo È scherzo od è follia siffatta profezia a quello della mazurka (o walzer, o menuetto che dir si voglia) intonata dall’orchestrina d’archi dietro le quinte nel finale dell’opera, e che farà da sfondo alla tragica fine del protagonista, fine precisamente predetta dalla profezia di Ulrica, così allegramente irrisa da Riccardo:


Solo con Freud (che ai tempi però era un bambinello) si potrà spiegare la valenza di quel legame, così subdolo, fra i ritmi dei due motivi.
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Prestazione complessivamente più che discreta sul piano musicale.

A Gregory Kunde va riconosciuta una grandissima professionalità e un mestiere senza pari. La voce è quella che è, ma il modo con cui il tenore americano affronta la parte è davvero lodevole, e così il pubblico lo gratifica di un autentico trionfo.

Oksana Dyka conferma di possedere una grande voce, proprio a livello di dote naturale. Mutuando un linguaggio da Formula-1 si potrebbe dire che ha il problema di mettere-a-terra-i-cavalli del suo motore. In sostanza: espressione e portamento sono ancora da migliorare parecchio (dovrebbe prender lezioni da Kunde, smile!)

Gabriele Viviani è un Renato passabile: anche per lui limiti nell’espressione, più che nel suono; un po' contratto nell'aria di esordio, onesto il suo Eri tu, ormai assurto a forca caudina per ogni baritono.

Una bella sorpresa è l’Oscar di Serena Gamberoni: voce più corposa di quelle sottilissime che spesso si sentono in questo ruolo, ma in compenso bella e passante, perfettamente emergente anche nel bailamme del concertati. Poi ci mette anche le atletiche giravolte e così si garantisce il trionfo.  

Anche Marianne Cornetti mette tutto il suo mestiere per offrirci una discreta Ulrica, con qualche problema – mi è parso – nella fascia bassa dei suoi, piuttosto forzati.

Antonio Barbagallo e Gabriele Sagona sono due degni Sam&Tom, come Marco Camastra nei panni di Silvano. Oneste le prestazioni del Giudice Luca Casalin e del messo di Amelia, Dario Prola.

Sui suoi alti standard la prestazione del coro di Claudio Fenoglio. Renato Palumbo forza forse un po’ il volume in alcuni momenti, ma complessivamente manovra abbastanza correttamente quello strumento di alto livello che è oggi l’Orchestra del Regio.

Tutto sommato uno spettacolo godibile, che il folto (non foltissimo) pubblico del Regio ha mostrato di apprezzare assai.  

19 giugno, 2012

L’onirica Luisa Miller di Martone-Noseda alla Scala


Ieri sera alla Scala settima (e terz’ultima) recita di Luisa Miller, con il (cosiddetto) primo cast, che però ha visto la prevedibile (date le vicissitudini recenti) sostituzione di Marcelo Álvarez con il suo secondo, Piero Pretti, annunciata da una speaker poco prima dell’inizio.

Opera bellissima, pur non potendosi definire capolavoro, nel soggetto come nella musica. Salvadore Cammarano costruì un mirabile libretto di dramma popolare che anticipa in qualche modo, quasi condensandoli, i contenuti della trilogia: un padre altolocato che ostacola l’amore del figlio per una diversa, ricorrendo anche all’inganno (Traviata); un altro padre, plebeo, che teme che la figlia venga sedotta da un potente (Rigoletto); un giovane innamorato che disprezza l’innamorata credendola traditrice (Trovatore). Prese spunto da Schiller, del quale Kabale und Liebe impiegò peraltro solo ciò che gli serviva (personaggi principali e canovaccio generale) ignorandone invece tutto il peso e in particolare i contenuti socio-politico-filosofici.

E Verdi ci mise tutta la dirompente carica – dei suoi anni di galera – per comporre questa grande opera romantica. La cui Sinfonia, dove si condensa l’essenza del dramma, contiene chiare tracce del romanticismo tedesco, come già a battuta 42, all’entrata del secondo motivo (o idea secondaria) che richiama quasi alla lettera (orchestrazione e tonalità incluse) un analogo inciso dall’Ouverture del Freischütz di Weber:
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In analogia al modello delle ouvertures mozartiane, la Sinfonia della Luisa, lungi dal presentarsi come un bigino dei temi delle arie principali dei tre atti che seguono, ne rappresenta la caratterizzazione profonda, con il suo unico tema (che non ricorre mai come specifico contenuto vocale di alcuna aria o coro o concertato, all’interno dell’opera) subito esposto con grande cipiglio, pur nel pianissimo, dai primi violini, che sembrano letteralmente evocare tre sussulti di un anima inquieta (gli anapesti che caratterizzano il tema e che vengono anticipati dagli altri archi):
Il tema, che trasuda agitazione e oscuri presentimenti, non solo comparirà esplicitamente nel terzo atto, a prefigurare l’epilogo tragico della vicenda, ma lo udiamo spesso e volentieri – magari in piccoli frammenti e in forme sottilmente derivate, o in motivi che ne presentano il ritmo inconfondibile - nei frangenti topici dell’opera, e sempre a metterne in risalto aspetti inquietanti o a preconizzare sventure, anche in  momenti apparentemente sereni e felici: insomma, è una specie di tema del destino di Luisa (ma non certo un Leit-Motiv, concetto che ancora doveva essere inventato, smile!)

Gli anapesti compaiono già nell’introduzione, sulla seconda frase di Luisa (Né giunge ancor) a sottolineare l’agitazione della ragazza che attende impazientemente l’amato:
 
E anche l’arrivo di Rodolfo sarà accompagnato da un marziale ritmo, proprio guidato da anapesti. Una variante del tema fa capolino poi sulle parole della protagonista (Iddio le avea in ciel) quando ricorda il suo incontro con Rodolfo e il relativo colpo di fulmine:
Invece è il ritmo del tema, con l’anapesto che lo caratterizza, a udirsi anche nel brillante T’amo d’amor ch’esprimere, che Luisa e Rodolfo cantano nel duetto dopo l’arrivo del giovane nella casa di lei:
E anche l’intervento di Miller (Non so qual voce infausta) che getta un’ombra sulla felicità dei due giovani, contiene i sinistri anapesti di cui il tema della sinfonia è pervaso. Poco dopo gli archi sottolineano l’entrata dello sbifido Wurm con figurazioni che, ancora una volta, derivano direttamente dal tema.   

Nel finale del primo atto, Miller rientra sconvolto dall’aver avuto conferma della vera identità di Rodolfo e del progettato matrimonio con la Duchessa, ed esprime la sua disperazione con poche parole, proprio su un frammento del tema del destino:
Subito dopo Rodolfo si ripresenta in casa di Luisa e le conferma, davanti a Miller, la sua promessa (Son io tuo sposo). È il clarinetto ad introdurre mestamente la sua esternazione, su un motivo che deriva dal tema principale della Sinfonia; poi appena prima del canto, espone la prima battuta del tema: qui è in MIb maggiore e non in DO minore, è vero, poiché la circostanza parrebbe fausta, ma il riferimento ritmico-melodico dell’intera frase del clarinetto non lascia presagire nulla di buono:
E poco dopo, infatti, quando Rodolfo canta A me soltanto e al cielo arcan tremendo è manifesto… (alludendo al delitto con cui suo padre conquistò la sua posizione) è ancora il clarinetto, con il fagotto, a sottolineare questa esternazione con terzine che rimuginano l’incipit del tema:
Immediatamente dopo, all’arrivo di Walter, un’altra forma derivata del tema – che ne contiene la cellula anapestica - ne accompagna la proterva pretesa di ristabilire l’ordine:
E ancora la udiamo nel successivo sfogo di Miller, offeso dal conte nell’onore della figlia. E anche il grandioso Deh! mi salva di Luisa altro non è se non una forma variata e dilatata della cellula del tema principale.

Nel secondo atto ancora udiamo negli archi la cellula anapestica del tema del destino: dapprima quando Wurm si appresta a dettare la falsa confessione a Luisa; poi sull’esternazione della ragazza (A brani, a brani o perfido); e quindi quando il medesimo Wurm notifica a Walter il procedere dell’intrigo. Ed essa torna poco dopo, durante l’incontro fra Federica e Luisa, quasi a condizionarne l’andamento, sotto la pressione delle minacce di Walter e Wurm alla poveretta.

E allorquando Rodolfo entra in possesso della (falsa) confessione di Luisa, è ancora una variante del tema a sottolinearne la tremenda agitazione:

E un’altra volta si affaccia subito dopo il mancato duello Rodolfo-Wurm, all’accorrere di armigeri e famigliari e quindi ancora nel drammatico dialogo di Rodolfo col padre.

Il terzo atto poi, fin dalle primissime battute, è sinistramente illuminato da questo tema del destino, che ormai si avvia al suo compimento:
Essendo qui notato con valori dimezzati, rispetto alla Sinfonia, e soprattutto a causa del metronomo  (ridotto quasi ad un quarto: 69 rispetto a 252) e nonostante l’abbreviazione del secondo dei tre sussulti (una semiminima invece di 2, per comprimerlo nel tempo di 3/4) il tema suona assai più lento che nella sua iniziale proposizione, con quasi il doppio di durata (matematicamente l’intera cellula tematica qui prende 5,22 secondi, nella sinfonia 3,33).

Interessante è proprio la manipolazione del secondo inciso, che rende la melodia, per così dire, zoppicante, asimmetrica, conferendole un carattere ansioso e caricandola di ulteriore tragicità; quindi pienamente adatta a sottolineare il canto di Laura e del coro Come in un giorno solo, come ha potuto il duolo stampar su quella fronte così funeste impronte? e il successivo invito di Laura Ah! l’infelice ignori qual rito nuzial s’appresta. Ma nel frattempo l’inciso anapestico, nel clarinetto, aveva anche infettato l’esternazione di Luisa A questo labbro più non s’appresserà terreno cibo! (chiaro riferimento al suo proposito suicida) e poco dopo tornerà, negli archi bassi, a sottolineare il presentimento di Miller: Il cor mi serra non so qual rio presagio!...

Il tema del destino torna – e per l’ultima volta, ormai - sulle drammatiche parole di Miller (che in realtà sta leggendo il proposito suicida che la figlia ha scritto per Rodolfo) Havvi dimora, in cui né inganno può, né giuro aver possanza alcuna...

Anche qui il tema è sottilmente variato rispetto all’originale: ora è il terzo sussulto ad essere compresso in una semiminima (invece di 2) quasi ad evocare l’improvviso precipitare della situazione. Il metronomo (80) fa sì che la durata della cellula tematica (6 semiminime) sia un poco inferiore a quella delle battute introduttive dell’atto (4,5 secondi contro 5,22).

La successiva progressione, che vede la cellula ripetuta sei volte, partendo da gradi sempre più alti (LA-SIb-DOb-REb-MIb-FA) mirabilmente esprime la crescente costernazione del padre alla lettura del messaggio della figlia a Rodolfo, costernazione che sfocia nel tremendo LAb di tutta l’orchestra, mentre il foglio cade di mano  a Miller, che mormora Sotto al mio piè il suol vacilla!...      

Poi, nel tragico duetto fra Rodolfo e Luisa, già posseduti dal veleno, sarà ancora l’inciso anapestico a comparire più volte. Compiutosi il destino, con lui se ne andranno anche i segni musicali che ne hanno accompagnato il materializzarsi.
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L’ambientazione pensata da Mario Martone è – parole sue – di stampo fiabesco-onirico. E ciò si giustificherebbe con le pesanti modifiche ambientali che Cammarano apportò al dramma di Schiller. Insomma, portandoci il libretto - da una città della Germania - in una malga del Tirolo e venendo a mancare il personaggio della madre di Luisa, ecco che la vicenda – secondo il regista – perde ogni carattere di realismo e diventa un sogno. Dove però – sono sempre parole di Martone – tutto ciò che accade sembra proprio reale… (smile!)   

Altra perla del regista (ascoltata nel video accessibile dal sito web del Teatro): l’assenza di costumi d’epoca mette il cantante in rapporto diretto con se stesso e con lo spettatore. Quindi abiti moderni, perché interpreti e spettatori possano vivere meglio la vicenda, evitando di farsi quattro risate al cospetto di gente abbigliata in modo bizzarro. Peccato però che lo strumento usato da Luisa per scrivere la confessione dettatale da Wurm non sia – come sarebbe coerente con la vision registica – Winword, ma una bella e lunga penna d’oca (stra-smile!)

Il letto è il protagonista-centrale dell’allestimento martoniano. Se leggiamo il libretto, scopriremo che effettivamente il letto vi compare, una volta sola. Ma è un letto assai particolare, come ci spiega Luisa poco prima della fine: La tomba è un letto sparso di fiori… Immagine invero poetica uscita dalla fervida penna del buon Cammarano. Ora, innalzare questo pezzo d’arredamento a simbolo dell’intero allestimento può spiegarsi solo in coerenza con la visione onirica del regista, chè – di solito almeno – è proprio a letto che si sogna. Ma ciò che invece lo spettatore capisce è che il letto, oltre ad essere lo strumento per sognare, è anche l’obiettivo (freudiano?) dei sogni di taluni (e talune).

Così rappresenta dapprima le aspirazioni (innocenti?) di Luisa: tutto candido e ricoperto di fiori (quindi sarebbe la tomba?) accoglie l’incontro fra i due innamorati. Poi quelle dello sbifido Wurm, che smania (più che sognare) per portarvici Luisa, impeditone però da Miller, che ricopre il letto con il lenzuolone bianco (la purezza della figlia?) per far capire al bavoso che quel posto lui se lo deve scordare.     

Letto che può venire benissimo a proposito nel caso di Federica, la cui caratterizzazione mi è parsa convincente: lei è una donna che ha avuto tutte le ricchezze immaginabili e desiderabili, ma le è purtroppo sempre mancato un manico. Ora che è tornata libera – ma evidentemente con qualche annetto in più sul groppone sui glutei (mi riferisco al personaggio, non all’odierna interprete, per carità) – altro non cerca che un maschio con cui finalmente usare il letto (che non per nulla viene ricoperto di lenzuolone e cuscini rosso-scarlatto) in modo piacevole e… sanguigno; e meglio ancora se quel maschio è uno che già eccitava le sue fantasie fin da quando frequentavano insieme le elementari; e di fronte al quale la bellona non esita a mettersi in desabillé per rinfrescargli la memoria.

Un altro pezzo d’arredamento (talvolta usato come alcova per imprese erotiche) – una poltrona, smile! - fa anche da scenario dell’odioso ricatto del vile verme Wurm (ma sì, mettiamoci pure una Stabreim!) ai danni della povera Luisa. Pochi dubbi che il tristo figuro abbia una voglia matta di scoparsela seduta (in poltrona) stante, ma qui pare che il regista esageri un filino, propinandoci una motivazione proprio hard-core della giusta indignazione della pudibonda ragazza, che sbotta: A brani, a brani, o perfido, il cor tu m’hai squarciato!

In casa Walter vengono portati in scena anche alcuni spezzoni di un’aula parlamentare, sui cui scranni prendono posto i rappresentanti della casta di quei tempi. La cosa sarebbe più plausibile se si rappresentasse il dramma di Schiller, tutto intriso di significati politici, mentre (almeno stando a Cammarano) nella Luisa dovremmo trovarci in una malga del Tirolo dell’inizio del 1600… smile! Ma vuoi vedere che si tratta invece di un trucco come un altro che il regista si è inventato per insinuare che i parlamenti di oggi non sono per nulla più democratici delle corti assolute di 400 anni fa? Nel primo atto gli scranni circondano il lettone rosso dove la provocante Federica cerca invano di soddisfare le sue smanie con il ritroso Rodolfo. Parrebbe quindi un’apologia, o una velata satira, dell’attuale camera dei deputati, trasformata tempo fa da un nostro ex-PM in luogo di supporto alle sue simpatiche burlesque.   

Il letto torna poi completamente bianco nel terzo atto, allorquando Luisa vi sogna effettivamente la tomba, sogno che non tarderà a materializzarsi.

Insomma, un’ambientazione – quella di Martone - fra l’intelligente e il bizzarro, che non mi sentirei di censurare totalmente, ma che vanifica almeno in buona parte gli sforzi con cui il librettista aveva cercato di poetizzare la vicenda. 
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Leo Nucci è il trionfatore di questo allestimento: la sua voce non sarà più perfetta, ma francamente il suo Miller è ancora di livello eccellente. Strepitosa, vocalmente, la sua salita al LAb dell’onor, anche se drammaticamente fa un poco scadere la nobile figura del vecchio padre a vanesio personaggio da tenorino in calore…

Elena Mosuc – accolta da ovazioni - non mi è troppo piaciuta: la sua incarnazione del tormentato personaggio di Luisa è convincente nel suo lato intimista, dove ascoltiamo una bella voce e acuti in mezzo-forte benissimo eseguiti; invece piuttosto volgarotta quando si tratta di far venir fuori la grinta: qui il canto, soprattutto in alto, tende assai verso il bercio. Insomma, una prestazione decorosa, ma non entusiasmante, nonostante la facilità con cui la Mosuc sale al REb sovracuto, che arriva al termine di una parte già di per sé faticosa e costellata da DO in abbondanza.

Conferma le sue doti Piero Pretti, che già si era fatto apprezzare nelle recite precedenti, compresa quella in cui era stato catapultato in scena di punto in bianco, dopo la rottura di Álvarez. Voce chiara e piuttosto leggera, ma abbastanza appropriata a scolpire la natura di questo personaggio pieno dei classici complessi da figlio-di-papà. Per lui consensi unanimi del pubblico.

Lo sbifido Wurm è benissimo impersonato da Kwangchul Youn, che in Verdi, come in Wagner, è ormai una sicurezza. Martone lo gratifica anche di un chiaro handicap fisico, così, tanto per infierire.  

Vitalij Kowaljow è un più che discreto Walter, peraltro un poco, diciamo così, sbiadito, almeno per come immagino il ruolo del conte, ricco di psicologiche contraddizioni.

Daniela Barcellona è una Federica professionalmente impeccabile, scenicamente perfetta (per come il regista immagina questo personaggio). La sua è una parte relativamente facile, e lei mostra di padroneggiarla assai bene, meritandosi grandi applausi.     

Valeria Tornatore (Laura) e Jihan Shin (un contadino) si sono guadagnati, come si suol dire - e specialmente la prima, più impegnata - la pagnotta.  

In bella evidenza il coro di Mario Casoni (che il redattore delle locandine web deve avere in uggia, visto che lo ignora regolarmente…)  

Da ultimo, Gianandrea Noseda. Si è letto di qualche contestazione nelle precedenti recite (evidentemente anche lui fatica a sfatare il vecchio adagio nemo propheta in patria…) Ieri invece solo applausi, compresi i miei (che sono di parte, essendo suo concittadino). Però, fossi in lui, qualche esagerazione nei fracassi me la sarei risparmiata…

In definitiva, uno spettacolo dignitoso, ma siamo sempre lì: dalla Scala non ci si dovrebbe aspettare di più?

15 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°37


Zhang Xian chiude questa settimana la parte concertistica della stagione 11-12 con tutto-Ciajkovski.

Il vincitore ex-aequo (in realtà il primo premio non è stato assegnato) del prestigioso Concorso Ciajkovski 2011, il 24enne Sergey Dogadin, si presenta per interpretare il Concerto op. 35, quello che, secondo lo schizzinoso Eduard Hanslick, era musica che puzza (effettivamente, dopo l’impiego fattone anni fa a scopo pubblicitario da una nota marca di brandy, emana ancora un certo olezzo di… alcool, smile!) Qui il ragazzo e il suo prezioso violino (oltre all’orchestra tenuta a bada dalla Xian, se si esclude un forsennato accelerando poco prima della cadenza) ce lo propongono però in modo sobrio e per nulla stomachevole.

Certo, è uno di quei pezzi che un violinista emergente non può non iscrivere in repertorio, e l’ascoltatore in questi casi assume il ruolo di assaggiatore di una nuova annata di chianti o di refosco: sarà la migliore degli ultimi 30 anni, o va archiviata nella grande massa delle produzioni dignitose-ma-non-più? Ecco, personalmente non mi sentirei di parlare di annata eccezionale: per carità, ascoltare il concerto eseguito con grande virtuosismo dal solista e con solida professionalità da orchestra e direttore è sempre un piacere, ci mancherebbe… e infatti il successo non manca, premiato con un bis paganiniano.

Poi un’altra pagina inflazionata: la Quinta, che laVerdi ha ormai interiorizzato fin dai vecchi tempi di Vladimir Delman. Anche in questo caso prestazione rimarchevole, soprattutto per la lettura accattivante della Xian, ma esecuzione non proprio impeccabile (i corni, croce e delizia di ogni orchestra…)

Pubblico osannante che dà l’arrivederci alla Direttora per il prossimo settembre, inizio di una nuova, speriamo altrettanto positiva, stagione.  

L’ultima fatica del 2011-12 per laVerdi sarà uno specialissimo appuntamento con l’opera: Andrea Chénier.

08 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°36


Corposo il programma del terz’ultimo concerto della stagione de laVerdi, in un Auditorium non proprio affollatissimo. E dal palinsesto ultra-classico: Ouverture, Concerto solista e Sinfonia; e tutto nel segno dell’ottocento, classico e romantico.

Difficile pensare a qualcosa di più romantico, nel senso proprio del termine, del weberiano Freischütz, la cui Ouverture apre la serata.
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È una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa.

È la melodia dei corni, da battuta 10, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne:


Poi ascoltiamo un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto:

   
Su un tremolo degli archi, adesso è il clarinetto che presenta un dolce motivo, in MIb, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max:



Tornano il truce motivo di Caspar, poi ricompare Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max e Caspar, prima della coda finale, che è ovviamente occupata dal motivo di Agathe, a chiudere nel glorioso DO maggiore.
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Trascinante l’esecuzione di Xian dell’Orchestra, a dispetto del non impeccabile esordio dei corni.


Il bravissimo Roberto Cominati (che ha recentemente inciso l’integrale pianistico di Ravel!) torna all’Auditorium, dove è quasi di casa, per proporci un autentico monumento della classicità su tastiera: il Quarto di Beethoven.

Di cui dà una lettura, appunto, classica, senza sconfinare il romanticherie fuori-luogo. Qualche piccola sbavatura nell’iniziale Allegro moderato nulla toglie al valore della sua esecuzione, ben sostenuta da Xian, che toglie le briglie all’orchestra giusto nei momenti più caldi del finale Rondo. Rimarchevole la resa delle atmosfere quasi impressioniste dell’Andante con moto.

Gran trionfo per Cominati, che ci regala un focoso bis con DeFalla.


In chiusura, un classico dell’epoca romantica, Johannes Brahms, con la sua Quarta.
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Il cui tema principale (con cui la sinfonia si apre) è abilmente costruito manipolando due semplicissime serie di terze (maggiori e minori). La prima discendente per due ottave dalla dominante: SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#-SI, in cui Brahms inserisce due rivolti, MI-DO e RE#-SI, ottenendo una melodia, per così dire, a dente-di-sega (diagonale-verticale-diagonale-verticale) che torna al SI di partenza. La seconda ascendente: MI-SOL-SI-RE-FA-LA-DO, in cui il MI e il RE sono raddoppiati e rivoltati un’ottava sotto, ottenendo un altro dente-di-sega (verticale-diagonale-verticale-diagonale):

Insomma, un esempio di come una melodia che suona come ispirata si possa ottenere con semplici interventi su una serie di suoni banalotta e di per sé abbastanza priva di attrattive.  

Poi viene l’Andante moderato, che si articola su due motivi; il primo è quello piuttosto crepuscolare, esposto inizialmente dai corni, col supporto degli strumentini:


Il secondo, più avanti, affidato inizialmente ai violoncelli, davvero brahmsiano fino all’osso:

Il terzo movimento, Allegro giocoso, è di fatto uno scherzo senza trio. In questo, che fu l’ultimo movimento di sinfonia composto da Brahms, entra anche – per la prima e ultima volta in tutta la sua produzione sinfonica - il triangolo.

L’incipit della ciaccona che chiude la sinfonia (e che Brahms aveva già fatto balenare verso la fine dell’Allegro giocoso) è ispirato da quello che conclude la bachiana Cantata Nach dir Herr verlanget mich (BWV150) e precisamente da quello del basso (fagotto e continuo):


Dalla melodia principale (Meine Tage in den Leiden) Brahms prende spunto per lo sviluppo delle innumerevoli variazioni di cui è ricco questo ultimo movimento. In una delle quali, prima del conclusivo Più allegro, ricompare ciclicamente la prima sezione (ampliata) del tema che aveva aperto l’opera, con una sequenza di terze discendenti, che qui ha la seguente struttura: MI-DO-LA-FA#-RE#-SI-SOL-MI-DO-LA-FA#-RE#... con il dente della sega ottenuto rivoltando il SOL e innalzandolo di un’altra ottava:

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Esecuzione che mi permetto di definire straordinaria. Xian tiene tempi praticamente perfetti; nell’iniziale Allegro chiede agli archi l’attacco delle frasi quasi con timidezza, impercettibilmente ritardati; e gli strumentini da parte loro fanno mirabilie. Nell’Andante corni e violoncelli meritano la lode. Splendida la compattezza di tutte le sezioni nell’Allegro giocoso e grandiosa la perorazione della conclusiva passacaglia. Davvero una prova maiuscola, che si merita ovazioni a non finire.


Il penultimo appuntamento (ma dal punto di vista concertistico sarà l’ultimo, poi… Chénier!) vedrà ancora sul podio Zhang Xian con una full-immersion di Ciajkovski.