bipolarismi

bandiera bianca vs bandiera nera

27 luglio, 2010

Il Lohengrin di Neuenfels: perché è Eurotrash


La nuova produzione bayreuthiana di Lohengrin, che ha aperto fra i buh (per il regista Hans Neuenfels) l'edizione 2010 dei Festspiele ha riportato (prevedibilmente) alla luce il problema delle regìe moderne, o post-moderne, del teatro musicale. Che sono in genere costruite con il seguente procedimento: il regista cerca nell'originale uno spunto (magari cui l'Autore stesso nemmeno aveva pensato!) interessante per lo spettatore moderno, ci costruisce sopra il suo Konzept, e poi ne trae tutte le conseguenze, poco o punto curandosi di quanto esse finiscano per allontanare la sua interpretazione dall'originale.
Prendiamo appunto il Lohengrin di Neuenfels. Come ha acutamente osservato A.C.Douglas (uno dei più autorevoli blogger americani in campo musicale) l'operazione di Neuenfels è assolutamente interessante e intelligente, ma salvo che per un piccolo particolare, come si vedrà.
Che spunto ha tratto Neuenfels dalla lettura del Lohengrin? Quello di una società – la nostra, perchè lo spettatore del 2010 non è quello del 1850, caspiterina! – che si avvia all'autodistruzione poiché priva di amore, dove ogni individuo è indifferente agli altri. E come rappresentarla? Come un laboratorio in cui si fanno esperimenti su una popolazione di topi (così vengono vestiti i coristi).
Poi accade che a noi, individui insignificanti di questa società senza amore, venga concessa una possibilità – come dire – di salvezza: possiamo finalmente diventare più umani, persone migliori ed avvicinarci all'utopìa della perfezione. Chi ci porta questa possibilità? Lohengrin!
Ma c'è una condizione (un trucco?): noi dobbiamo avere una fiducia cieca e totale in Lohengrin, e non chiedere spiegazioni. La cosa pare funzionare e infatti – alla fine del primo atto – i topi si tolgono la loro pelle di topo e sotto di essa appaiono dei moderni abiti gialli, che mostrano persone giovani, innocenti e credenti. Però sempre con mani e piedi da topo, perché deve essere chiaro che – sotto-sotto – sono sempre topi da laboratorio.
E infatti l'illusione svanisce e il dubbio insinuato da Ortrud in Elsa arriva come una bara piena di piume di cigno a metter fine all'utopìa. E poi, quando Lohengrin si prepara a partire, ecco che, invece del cigno, Lohengrin mostra un enorme uovo da cui esce un orribile e mostruoso neonato. Che si taglia il cordone ombelicale, lo fa a pezzi e li butta, come codini, agli individui lì convenuti, perché la festa è finita, e loro devono tornare topi quali erano in partenza.
Beh, conclude A.C.Douglas, in fin dei conti un'idea per nulla malvagia.
Qual è il piccolo, insignificante dettaglio che manda tutto a (meretrici) buh?
È la musica, stupido!

25 luglio, 2010

Piccola cronaca remota dell’apertura dei Festspiele 2010 a Bayreuth

Dopo la defezione del Telramund pugliese Lucio Gallo (di cui pare nessuno si sia accorto, neanche quelli di Radio3, tranne i tipografi costretti a correggere le locandine già stampate) questo Lohengrin ha rischiato di perdere (anzitempo, smile!) anche la sua Elsa Annette Dasch. Mentre si preparava ad una delle ultime prove per il suo debutto sulla verde collina, è stata proditoriamente colpita al capo da un oggetto scagliato dal paparino di Lohengrin, tale Parsifal, evidentemente invidioso delle imprese amorose del figlio (…questa è ovviamente una ricostruzione romanzata del piccolo incidente occorso alla bella soprano).

Poi tutto si è sistemato e la kermesse ha potuto prendere il via, col solito preludio costituito dall'arrivo e dalla passerella del solito caravanserraglio dei soliti vip che, in cambio dell'enorme – per loro – sacrificio di dover sopportare ore e ore di musica – per loro - pallosa, possono sfoggiare le loro strampalate acconciature ed essere visti in tutto il mondo, senza tirar fuori un solo centesimo. Qualcuno, negli intervalli, viene anche intervistato e – toh, che strano! – racconta mirabilie anche delle più grandi idiozie viste e/o udite. Però la cosa non si ripeterà più fino al prossimo… fine luglio 2011.

In attesa che la (ormai non più) piccola Kathi decida di far irradiare anche le immagini delle rappresentazioni in mondovisione (è solo questione di tempo, di montagne di quattrini in ballo e del modo più furbo e sicuro per estorcerli a milioni di interessati, proprio nella più genuina tradizione inaugurata dal capostipite della famiglia) ci accontentiamo ancora della radio, quella cara e vecchia a MF (o addirittura in OM!) o quella nuova digitale, che ci arriva sul laptop o magari sul telefonino. Una goduria, questa! e sarà da vertigine quando il tutto funzionerà in chat, con Kaufmann che implora: Elsa, che vuoi tu osare? e una eccitata cinesina che interloquisce: La tua cosa più glande!

Non per essere maliziosi, ma l'ascolto radiofonico ha molto spesso il grande privilegio di non farci distrarre (termine politically correct per: vomitare) da immagini e scene propinate dal famoso regista-tabagista di passaggio (che si sussurra sarà richiamato nel 2013 per allestire il Ring del bicentenario. Auguri).

Esauriti gli argomenti seri, veniamo alla cronaca.

Le operazioni si aprono alle ore 15, quando le radio cominciano ad occuparsi dell'avvenimento. Alle 15:57 arrivano in diretta i primi suoni: è la fanfara che chiama il pubblico a raccolta, dal balconcino sovrastante l'ingresso. Per il primo atto ci propina il richiamo dell'Araldo del Re Heinrich:




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Poi il classico brusìo della sala, l'ingresso in incognito del Kapellmeister (il giovane di belle speranze Andris Nelsons, anche lui al debutto giù nel torrido Orchestergraben) e infine le quattro sezioni dei violini attaccano la perfetta triade di LA maggiore, seguite da flauti e oboi e poi dai quattro violini solisti, in armonici. È lo straordinario incipit, che sempre toglie il respiro.

Il Preludio scorre assai bene e Nelsons dimostra per ora di essere all'altezza del non facile compito.

Nel primo atto compare subito Samuel Youn, che impersona l'Araldo del Re: una parte per nulla secondaria, che viene sostenuta con grande dignità ed efficacia. Non altrettanto direi di Re Heinrich (l'uccellatore… di brabantini) che è Georg Zeppenfeld, poco appariscente. Come e peggio di lui Telramund che, in luogo del nostro Gallo, era Hans-Joachim Ketelsen: di casa a Bayreuth nella penultima decade e recuperato in fretta e furia, è parso incerto persino nell'intonazione.

Brava Annette Dasch, che deve aver perdonato l'invidioso – e molto provvisorio – suocero per il citato scherzetto della vigilia: voce forse non potentissima, ma assai espressiva.

Jonas Kaufmann ha mostrato i suoi ormai noti pregi e difetti: quando canta a piena voce, nulla da eccepire. Quando deve fare una mezza-voce, come all'entrata, sul saluto al cigno, emette suoni sgradevoli, a metà fra il falsetto e l'ingolato.

Ingiudicabile – per ora - Evelyn Herlitzius in Ortrud, visto che ha cantato solo nel concertato finale, che mi è parso peraltro costellato da diverse imprecisioni nelle varie entrate.

Un primo atto senza infamia né lode, accolto alla fine da applausi non proprio entusiastici e da diversi buh (immagino alla intellettualoide regìa di Neuenfels).

Nell'intervallo, a Radio3 parla, da Firenze, Daniele Spini, il quale confessa di non avere presente la faccia di Kaufmann ed è anche lui convinto che Telramund sia cantato da Lucio Gallo. Poi fa considerazioni magari anche interessanti, dialogando con Guido Bossa e Marco Mauceri che è sul posto.

Poco dopo le 18 riecco la fanfara che preannuncia il secondo atto; suonando il tema del dubbio che si è insinuato nel cuore di Elsa:




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Si inizia col duetto Telramund-Ortrud, che riserva qualche sorpresa: Ketelsen pare decisamente migliorato, mentre la Herlitzius mi delude assai, urlando gli acuti, su cui ha uno sgradevolissimo vibrato e mostrando difficoltà evidenti di intonazione negli attacchi.
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Sempre bene la Dasch e sempre uguale a se stesso Kaufmann, che spara bene i LA acuti in forte, ma continua a falsettare le frasi da cantare piano (come Komm, lass in Freude… e anche Elsa, erhebe dich… e infine Heil dir, Elsa…)
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Discreti i cori che costellano l'atto. Per l'accoglienza alla fine, idem come sopra: un isolato bravo! (ma per chi?) applausi di cortesia e un sottofondo di buh, indubbiamente per la regìa.
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Secondo intervallo: il regista Denis Krief e Marco Mauceri da Bayreuth sospettano di volontà dissacratoria da parte di Neuenfels. Krief parla di parodia e Mauceri confessa di aver chiuso gli occhi per godersi la musica. Evviva la sincerità! Finalmente si annuncia che Telramund non è Lucio Gallo!
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Alle 20:30 l'ultima fanfara per il terzo atto; che chiama tutti col tema del Gral:






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Dopo il rumoroso preludio, ecco la famosa marcia nuziale, attaccata da Nelsons con un piglio invero eccessivo: dal moderatamente mosso ha cancellato di sana pianta il moderatamente! Forse nell'allestimento di Neuenfels pioveva e il corteo doveva fare in fretta…

Il duetto Lohengrin-Elsa ripropone pregi e difetti dei cantanti, soprattutto di Kaufmann, che poi mostra il suo lato-B (quello meno presentabile) nella prima parte di In fernem Land e in seguito nel Mein lieber Schwan. Tagliate – more solito - le 97 battute che precedono l'arrivo del cigno. La Herlitzius fa ancora a tempo a urlare smodatamente le sue maledizioni, e finalmente il Gral chiude con gran fracasso.

Applausi – più o meno calorosi - per tutti i Musikanten.

Una bufera di buh per Neuenfels: meno male che a noi poveri pirla è stata risparmiata la fatica di spremerci le meningi per capire il suo Konzept!

20 luglio, 2010

Domenica 25 Bayreuth apre con Lohengrin

Fra pochi giorni Lohengrin aprirà una nuova tornata della kermesse di Bayreuth. Molto atteso il debutto di Jonas Kaufmann, che potrebbe installarsi sulla verde collina per qualche decennio, eventualmente passando – verso il 2050, duecentesimo della prima del Lohengrin - dal ruolo del protagonista a quello di Telramund, analogamente a quanto sta facendo di questi tempi il buon Topone (smile!)

L'altra ansiosa (?!) attesa riguarda, come sempre, la regìa, affidata all'ex-bambino terribile Hans Neuenfels. Che vede Lohengrin come un particolare tipo di salvatore, un consulente impegnato in un pazzo compito: risolvere un’intricata situazione in un’azienda bloccata da lotte, invidie e odio. E che opera, in un laboratorio, facendo test su animali che si vogliono umanizzare. Qualche allibratore forse offrirà di scommettere su quanti buh saluteranno l'allestimento. Ma ormai questo è ciò che rende vivace il Festival.

Per chi seguirà alla radio invece sarà interessante ascoltare la direzione musicale di Andris Nelsons, un lettone che sembra seguire le orme del suo famosissimo compatriota Mariss Jansons.

Piccola delusione per noi italiani, il mancato debutto, causa malattia (?!) di Lucio Gallo come Telramund: per sentire una voce italiana a Bayreuth bisognerà aspettare ancora…

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Soggetto e poema

Wagner scrisse in tutto 13 opere; Lohengrin rappresenta lo spartiacque fra il periodo per così dire tradizionalista della sua produzione, e quello più decisamente innovativo:

fino al 1845: Die Feen / Das Liebesverbot / Rienzi / Der fliegende Holländer / Tannhäuser

1845-1848 Lohengrin

dopo il 1849: Der Ring / Tristan und Isolde / Die Meistersinger von Nürnberg / Parsifal

Si tratta perciò di un lavoro che, pur conservando alcuni legami con la tradizione (dell'opera italiana e del grand-opéra francese) contiene i germi della concezione del dramma musicale che Wagner sta maturando e che si materializzerà, di lì a poco, con il Ring.

Il protagonista maschio (come nelle precedenti due opere) sembra essere sempre al di sopra di ogni giudizio e discussione, sia quando è un corsaro maledetto (Holländer) o quando è uno sfrenato edonista (Tannhäuser); qui invece, è addirittura una specie di angelo venuto dal cielo, a incarnare la provvidenza; ma una provvidenza misteriosa, inspiegabile, onirica e per certi versi paradossalmente persecutoria.

La protagonista femmina è vista come un oggetto passivo: nell'Holländer e nel Tannhäuser svolge il ruolo di donna pia, consolatrice e redentrice, al servizio dell'uomo sfigato e peccatore; qui è invece una donna innocente, indifesa e bisognosa di protezione, ma alla quale è negato persino il diritto di sapere chi è l'uomo mandato da Dio in suo soccorso; e il suo stesso atto di disobbedienza a tale divieto non nasce da una sua positiva volontà di emancipazione, ma rappresenta una chiara manifestazione della debolezza del suo carattere, che soggiace alla straripante personalità di Ortrud.

I cosiddetti comprimari (qui, Friedrich e Ortrud) sono invece gli autentici protagonisti drammatici, a cui Wagner affida i momenti più forti e innovativi dell'intera opera (soprattutto nel secondo atto, la cui prima scena non sfigura certo davanti a quella con cui Klingsor e Kundry apriranno il secondo atto del Parsifal); gli interpreti devono perciò essere un baritono e un soprano pesanti di assoluto valore.

Le principali novità che il Lohengrin introduce a livello musicale sono diverse.

Quasi totale abolizione dei numeri chiusi (arie, cavatine, duetti); ci sono in realtà parecchi dialoghi in musica, precursori di ciò che Wagner farà nel futuro, anche se non siamo ancora ai celebri declamati del Ring.

Della tradizione del grand-opéra, da cui Wagner sta progressivamente allontanandosi, restano qui solo i cori - peraltro già trattati in modo innovativo, nella polifonia delle voci, e che molto raramente cantano all'unisono - e l'inizio della scena finale, con bande e cavalli in palcoscenico!

Comincia a prendere corpo la tecnica dei leitmotive, temi che si legano a personaggi o situazioni e che ritornano più volte nel corso dell'opera (es.: il tema del Gral, quello di Lohengrin, il tema del divieto a chiedere l'identità di Lohengrin, il tema del cigno…); comunque, siamo proprio agli inizi, nulla di confrontabile con la mirabile tecnica di elaborazione dei temi che Wagner perfezionerà a partire dal Rheingold, ma la strada è ormai chiaramente tracciata.

L'orchestra è quella tradizionale (Wagner non ha ancora inventato le sue tubette): tuttavia l'orchestrazione e la coloritura del suono (il preludio ne è un fulgido esempio) sono già molto più avanti rispetto al Tannhäuser, che non per nulla verrà radicalmente rimaneggiato dopo quasi vent'anni dalla sua composizione.

Preludio

75 battute, in tonalità di LA maggiore, con due modulazioni (all'inizio, sulla dominante MI maggiore e - al culmine del preludio - sulla sottodominante RE maggiore).

È solo ed esclusivamente incentrato sul tema del Gral, presentato in una continua progressione del volume del suono, ma non del tempo, che deve restare sempre lento (primo test per il direttore, spesso portato invece ad accelerare) dall'inizio nei violini divisi, flauti e oboi, fino all'apogeo (a piena orchestra, piatti inclusi, a circa due terzi della durata) per poi degradare ancora fino alla fine.

(Wagner anticipa qui, in qualche modo, l'impianto del preludio del Tristan).

Atto I

L'ambientazione resta immutata per tutto l'atto (le rive della Schelde); da un lato re Heinrich con i suoi germanici (e quattro trombe sulla scena) e dall'altro i brabantini, con Friedrich e Ortrud: le due etnìe devono essere sempre ben distinguibili, perciò spesso cantano in cori separati o su linee melodiche diverse e hanno anche due diversi temi, o segnali di riconoscimento.

Tutta la prima scena è occupata da una serie di racconti: l'araldo che spiega cosa fa re Heinrich da quelle parti, il re che fa il suo discorso politico, Friedrich che presenta la falsa accusa di fratricidio nei confronti di Elsa, ancora il re che apre il giudizio, infine l'araldo che chiama Elsa a difendersi. Tutto ciò serve a farci conoscere gli antefatti ed i presupposti dell'azione: quindi si tratta di monologhi o dialoghi, in forma quasi di recitativo, dove Wagner sembra sperimentare la tecnica del declamato, qui ancora con dei risultati piuttosto modesti.

Nella seconda scena, entra Elsa e subito si cambia musica, poichè cominciano ad affacciarsi i leit-motive dell'opera: ancora prima che lei canti, già compaiono due temi, o frammenti di tema, a rappresentarne la fragile personalità e lo stato d'animo dimesso, mentre ascolta le domande del re. Poi, il racconto del suo sogno è preceduto dal tema del Gral e accompagnato da quello di Lohengrin. Ancora, dopo la reiterazione dell'accusa da parte di Friedrich, la domanda del re all'accusatore e poi ad Elsa circa la soluzione della contesa attraverso una tenzone è preceduta, in entrambi i casi, da un possente motivo, esposto da tromboni e tube, che anticipa quel tema del patto che per tutto il Ring tornerà infinite volte a rappresentare la forza e l'inesorabilità della legge e dell'autorità costituita (come si vede, il Lohengrin contiene tanti indizi di ciò che presto si manifesterà apertamente nella produzione di Wagner).

Ancora il tema del sogno ricompare ad anticipare la risposta di Elsa su chi sarà il suo cavaliere. Poi Wagner mostra di sapere come far stare col fiato sospeso gli spettatori, riempiendo di suspence (Elsa che deve invocare più volte il suo salvatore) gli attimi che precedono l'arrivo di Lohengrin sulla barchetta trainata dal cigno. Lohengrin è accolto da un coro generale, che è però suddiviso così: primo coro maschile, secondo coro maschile, entrambi con quattro linee melodiche, e coro femminile, con due linee melodiche; si arriva fino a otto diverse voci sovrapposte!

La terza scena si apre con il tema del Gral nei violini, che introduce i saluti di Lohengrin: al cigno, che lo ha trainato fin lì - ed il relativo tema mostra chiaramente la sua derivazione da quello del Gral (i legami cigno-Gral torneranno molti anni più tardi, nel Parsifal) - e al re, col coro misto che lo accompagna, su sei diverse linee di voci. Poi l'offerta di protezione e di amore di Lohengrin, ancora sul tema del Gral, che Elsa accetta (accompagnata dal tema del suo sogno) ma con la condizione che lei mai gli chieda chi egli sia. E il severo tema del divieto, che si compone di due sezioni, e del cui incipit si ricorderà Ciajkovski nel suo Lago dei Cigni (toh!) appare qui per la prima volta, reiterato da Lohengrin con crescente fermezza:







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Un coro misto a sei voci suggella la dichiarazione d'amore di Lohengrin per Elsa, riprendendo ed estendendo il tema già esposto al momento del saluto di Lohengrin al re.

Lohengrin proclama di scendere in campo per Elsa contro Friedrich, che il coro dei suoi brabantini cerca di dissuadere, cantando diviso in ben sei parti! Friedrich insiste e quindi si prepara la tenzone: l'araldo del re ha ancora occasione di occupare il proscenio, quasi scortato dalla prima sezione del tema della legge, che ne sottolinea le raccomandazioni ai duellanti (come si vede, la sua è una particina non proprio trascurabile, come si constaterà anche nel secondo atto).

Il re fa una lunga invocazione al cielo (e il Gral fa subito capolino) perchè la vittoria premi il buon diritto, poi inizia un grande concertato a cinque: Elsa, Lohengrin, Ortrud (che qui canta per la prima volta) Friedrich e il re, cui presto si aggiungono il coro maschile e poi quello femminile, per un totale di nove linee melodiche! Finalmente si arriva al duello Lohengrin-Friedrich, che è davvero rapidissimo (solo 21 battute di musica) proprio come lo sarà quello Siegfried-Fafner nella seconda giornata del Ring.

Dopo il grido di vittoria di Lohengrin e della folla, Elsa alza il suo canto di ringraziamento e di giubilo (qualcosa di simile a ciò che farà Eva, nei confronti di Sachs, nei Meistersinger). Poi inizia il colossale concertato finale, con i cinque protagonisti - ciascuno dei quali esprime il proprio stato d'animo - e i cori, dove si raggiungono anche le dieci linee melodiche sovrapposte! (soltanto nella scena della baruffa nei Meistersinger, Wagner farà ancor di peggio).

Il tema di Lohengrin, in tutti i fiati, sostiene l'ultima parte del concertato e introduce la cadenza finale (con gli ottoni a produrre un grandissimo fracasso).

Atto II

Non c'è dubbio che questo sia l'atto drammaticamente e musicalmente più intenso (quindi, per gli interpreti, il più arduo da eseguire e, per lo spettatore, il più impegnativo da seguire, anche per la sua lunghezza) dell'intera opera. Forse non è un caso che Wagner lo abbia lasciato per ultimo, in fase di composizione, per meglio farlo maturare nella sua mente (effettivamente qui si sente che il Ring, cioè il futuro, è ormai vicino).

Il preludio orchestrale (degno dei secondi atti del Siegfried o del Götterdämmerung) è caratterizzato dall'esposizione di una lunga melodia negli strumenti gravi, che ben rappresenta musicalmente la personalità oscura e demoniaca di Ortrud; tale melodia è all'inizio interrotta da due spettrali incisi del tema del divieto, suonati dal corno inglese (anche la scelta di questo strumento è illuminante, poichè conosciamo il ruolo che esso avrà poi nel Tristan). È notte, siamo nel centro di Antwerp, fra palazzi e cattedrali (alcuni strumenti sono posti sulla scena, perchè il loro suono deve provenire dall'interno dei palazzi).

La prima scena è davvero il segnale della svolta che Wagner comincia ad imprimere alla sua arte: il dialogo tra Friedrich e Ortrud, pur con qualche cedimento a vecchi stilemi (un paio di versi di Friedrich ripetuti e il canto finale di vendetta dei due all'unisono) è di una potenza drammatica straordinaria ed inoltre mostra con quale sapienza Wagner sia ormai in grado di padroneggiare tutti i risvolti psicologici dei personaggi e dell'azione: lo sfogo di Friedrich contro Ortrud, responsabile delle sue sfortune, poi lei (che anticipa addirittura certi tratti della Kundry del Parsifal) che comincia a tessere la tela della sua vendetta, dapprima riportando al suo fianco il marito ormai sconfortato e poi convincendolo che è Elsa l'anello debole della catena dei loro nemici, sulla quale esercitare quindi la massima pressione psicologica, affinchè infranga il divieto impostole (oboi e clarinetti, poi il corno inglese, ce ne ripropongono il lugubre tema).

Nella seconda scena, che si apre con l'apparizione di Elsa al balcone del palazzo (accompagnata da un frammento della melodia che sosterrà il corteo nuziale, alla fine dell'atto) Ortrud passa all'azione, facendosi riconoscere da Elsa e cominciando ad insinuare in lei dei vaghi dubbi circa la sua futura felicità: nelle sue parole si odono invocazioni a divinità (Wodan, Freia) che ci diverranno familiari nel Ring, mentre qui rappresentano le religioni antiche e le credenze pagane, cui Ortrud è legata, contrapposte al moderno cristianesimo impersonato da Lohengrin. Senza rendersene conto, Elsa sta cadendo nella rete di Ortrud, che procede nella sua azione demolitrice con insinuazioni sempre più pesanti sull'identità di Lohengrin, e lo fa cantando sul tema del divieto, sempre sottolineato dal perfido suono del corno inglese!

Elsa invita Ortrud a seguirla nel palazzo, cantando sul frammento di una melodia che tornerà nel terzo atto, all'inizio del suo dialogo notturno con Lohengrin. La scena si chiude con un duetto delle due, sostenuto e poi concluso da una lunga e bellissima linea melodica, e con Friedrich che si compiace del fatto che l'infelicità stia entrando in quella casa.

Da qui in avanti e per le restanti tre scene, l'atto è tutto un susseguirsi di momenti drammatici, che ne interrompono altri più sereni o maestosi (caratterizzati dalla presenza costante dei cori): sono Ortrud e Friedrich a rompere più volte la solennità dei festeggiamenti, tessendo la loro trama volta a soggiogare la fragile personalità di Elsa, continuando a insinuarle atroci dubbi sull'identità di Lohengrin (a proposito, Lohengrin si identificherà come tale solo alla fine dell'opera; prima, nessuno conosce il suo nome; il parallelo con il primo atto della Walküre - Siegmund - è evidente).

Vediamo: la terza scena rappresenta l'alba del nuovo giorno e la città che si rianima (con i due cori maschili, divisi in otto voci) poi l'araldo che ha ancora modo di mettersi in bella mostra, annunciando i proclami del suo re. Ancora i due cori che acclamano Lohengrin, prima dell'intervento drammatico di Friedrich, che per ora si fa riconoscere solo dai suoi fidi, promettendo vendetta contro lo straniero innominato.

La quarta scena si apre con Elsa che esce dal palazzo, scortata dai cori maschili, su una dolcissima melodia, ondeggiante dal MIb al MI naturale al MIb, che era fugacemente apparsa all'inizio della seconda scena. Si aggiunge poi anche il coro femminile e dei fanciulli, fino alla nuova rottura, clamorosa questa, da parte di Ortrud, che affronta Elsa pubblicamente. Elsa cerca di reagire, spalleggiata dai cori, ma Ortrud ha ormai scardinato le sue certezze…

Scena quinta: arriva il re, poi Lohengrin, in cui Elsa cerca conforto e protezione. Si avviano maestosamente verso la cattedrale, ma ecco la nuova irruzione di Friedrich, che questa volta affronta tutti a viso aperto, reclamando giustizia contro le arti magiche di Lohengrin (ed è nientemeno che il motivo della legge, comparso nel primo atto, a sottolinearne, per ben due volte, le pretese). Lohengrin si difende a sua volta, dichiarando che solo ad Elsa è tenuto a rivelare la sua identità; e la prima sezione del motivo del divieto, sempre nel timbro cupo e rabbrividente del corno inglese, sostenuto dal clarinetto basso e dai fagotti, si insinua ancora malignamente, quasi a rappresentare musicalmente lo strumento di questa specie di lavaggio del cervello, cui Elsa è sottoposta e a cui per il momento resiste (ma ormai sarà ancora per poco…)

Inizia ora un concertato generale, che sarà chiuso dal tema del divieto: i cinque personaggi principali vi esprimono i rispettivi stati d'animo, con i cori maschile, femminile e dei fanciulli (significative le parole di Ortrud, poi riprese da Elsa: "il dubbio sta nel profondo del cuore").

Poi il re acclama ancora Lohengrin, ma in quel mentre ecco una nuova drammatica intrusione, ancora di Friedrich, che stavolta avvicina Elsa, rimasta sola in disparte, e le propina le ultime insinuazioni su Lohengrin (promettendole inoltre di intervenire quando lei e lo sposo saranno soli, la notte successiva) prima che questi lo allontani e conduca Elsa con sè, avviando la fine dell'atto, che è maestosa e toccante, con il corteo nuziale che entra nella cattedrale accompagnato da una musica celestiale, organo compreso, ma tuttavia velata dall'immanente presenza di Ortrud, col tema del divieto che si ripresenta per l'ennesima volta, ed in modo a dir poco tracotante, fortissimo in trombe e tromboni, poco prima della chiusa.

Atto III

Subito dopo il vigoroso preludio (molto trascinante, ma per la verità piuttosto fuori dal contesto, quasi un ultimo cedimento agli stereotipi del grand-opéra) ecco la prima scena, con la famosa marcia nuziale, che si dovrebbe sempre eseguire con la massima delicatezza e leggerezza (ma ahinoi, quante volte sarà stata strapazzata da beceri organisti di parrocchia, che la suonano invece come se dovesse accompagnare una sfilata di panzer!)

Poi la seconda scena, il dialogo Lohengrin-Elsa, in un crescendo drammatico fino al suo apice (la domanda proibita sulle labbra della donna, che infrange il divieto…) e all'irrompere di Friedrich, trafitto da Lohengrin; il lungo dialogo fra Elsa e lo sposo innominato traccia già la strada su cui, in futuro, si muoveranno altri duetti wagneriani: Siegmund-Sieglinde e Tristan-Isolde.

Dapprima i due si inseguono sullo stesso tema musicale, chiudendo la frase su una cadenza classica e tradizionale, verdiana si direbbe. Poi Lohengrin ne introduce un altro, cui Elsa risponde col ricordo del suo sogno (e il tema di Lohengrin si affaccia negli strumentini…) Ma ecco che in lei comincia ad affiorare l'ansia: come risuona dolce il mio nome sulle tue labbra, dice allo sposo, ma quando potrai tu sentire il tuo dalle mie?

Lohengrin cerca di sviarla intonando una nuova, dolcissima melodia, ma Elsa è ormai incamminata sulla china che la perderà… ed infatti il tema del divieto si insinua ancora, durante la sua replica, sempre nel corno inglese, spalleggiato dal clarinetto e dall'oboe.

Lohengrin cerca di fare ancor meglio… anche musicalmente, intonando un nuovo bellissimo tema (di cui Richard Strauss si ricorderà in Salome) ma ottiene l'effetto opposto, poichè è costretto a motivare - e quindi ribadire - il suo divieto (il cui tema gli strumentini sottolineano impietosamente).

Lohengrin afferma, stentoreo, che lui viene da un mondo di luce e amore (e lo fa quasi sulle stesse note con cui, più tardi, rivelerà il suo nome!) Ma Elsa sta ormai cedendo, e canta la sua angoscia, sempre più fuori di sé: adesso - sul relativo tema - vaneggia del cigno che torna a riprendersi Lohengrin e a portarlo lontano da lei… infine sbotta: voglio sapere chi sei! e il tema del divieto letteralmente esplode, fortissimo nei corni, a spalleggiare gli strumentini: la frittata è fatta, Elsa sciorina tutte le domande proibite, mentre a Lohengrin non resta che pronunciare frasi smozzicate di delusione e di dolore.

A questo punto Wagner ci propone uno dei suoi magistrali colpi di teatro: Friedrich, come aveva promesso ad Elsa alla fine del secondo atto, entra con i suoi compari, Elsa lancia a Lohengrin la spada, con cui Friedrich viene steso all'istante (qui val la pena di notare un particolare: è il timpano a sottolineare, con i suoi rintocchi lugubri, la morte di Friedrich; Wagner utilizzerà questo strumento altre volte, in simili circostanze: nel Rheingold, ad accompagnare gli ultimi rantoli di Fasolt, ammazzato dal fratello Fafner, nella Walküre, allorquando Hunding verrà annichilito da un solo gesto di Wotan, nel Götterdämmerung, per raccogliere l'ultimo pensiero per Brünnhilde di un Siegfried morente).

A questo punto ritorna, ma sfiorito e dolente, uno dei temi che avevano poco prima sottolineato la felicità di Elsa e Lohengrin. Elsa implora pietà, ma le risponde, nientemeno!, che il tema della legge. Poi è sul tema di Ortrud che inizia la transizione verso la scena successiva: Lohengrin annuncia che spiegherà tutto davanti al re e al popolo, e lo fa sul tema del divieto, che poi accompagna Elsa e infine, prima fortissimo, poi più smorzato, seguito dal Gral, nei tromboni, chiude la scena.

Nella terza scena si torna quindi sulle rive della Schelde, dove arrivano le masse (prima i brabantini, a cavallo!, divisi in quattro gruppi che sopraggiungono da direzioni diverse, poi i germanici col re) che intonano un colossale inno, puramente strumentale, con fanfare, squilli di tromba e secchi colpi di timpano in gran quantità (e con strumenti che suonano anche sulla scena, compreso un tamburo a tracolla). Per distinguere le varie bande, Wagner le fa suonare in tonalità diverse: la prima esecuzione dell'inno è in MIb maggiore, poi c'è una transizione a RE maggiore e da qui a FA maggiore, tonalità in cui l'inno viene presentato per la seconda volta; adesso si passa a MI maggiore e da qui al solenne DO maggiore, esposto dalle truppe del re, e che sorregge la terza ed ultima replica dell'inno, chiusa dall'intervento del coro maschile al completo. (Non c'è dubbio che questa scena sia un estremo tributo di Wagner alle regole del grand-opéra e certo, se qui il direttore si lascia andare, il rischio di cadere nel grossolano e nel banale è altissimo).

Ora siamo alla stretta finale: il saluto del re, il trasporto della salma di Friedrich, l'arrivo di Elsa, accompagnata dall'ultima apparizione del tema del divieto (che il ritmo qui ci rappresenta come un vero e proprio fardello, pesante e difficile da sopportare), l'arrivo di Lohengrin, come sempre accompagnato dal suo tema e dai cori al completo.

Poi, dopo aver annunciato che non potrà restare in quella terra, e appoggiandosi su un poderoso intervento del tema della legge, Lohengrin chiede e ottiene assoluzione per l'uccisione di Friedrich, quindi dichiara rotta la sua unione con Elsa, per colpa di lei, che ha tradito il giuramento fatto, e si appresta a fare le sue rivelazioni…

È il tema del Gral, sempre in LA maggiore, a introdurre l'auto-identificazione di Lohengrin, dove viene sottoposto ad una serie continua di modulazioni, lungo il racconto della storia e del significato di Monsalvat e dei cavalieri che vi operano con Parzival, padre di Lohengrin, il cui tema esplode nel momento in cui il suo nome viene finalmente rivelato a tutti. Quindi, il commiato di Lohengrin da Elsa e dal re (purtroppo questa parte, caratterizzata anche da un concertato a tre voci, più i due cori, viene spesso e volentieri – e financo a Bayreuth - tagliata da direttori che vanno ben al di là della volontà del compositore).

L'arrivo del cigno, accolto da Lohengrin, con il suo tema fattosi quasi lamentoso, l'ultima invocazione (quasi un'imprecazione, per la verità) e l'addio di Lohengrin ad Elsa, poi ancora un sussulto drammatico: è l'estremo colpo di coda di Ortrud, il cui sfogo, la sfrontata confessione e il grido di vendetta degli déi pagani contro i moderni miscredenti, portano alle battute finali: la trasformazione del cigno nel piccolo Gottfried, il fratello del cui omicidio Elsa era stata fraudolentemente accusata, la partenza di Lohengrin, sempre accompagnato dal suo tema, Elsa che spira e il Gral che chiude con un fortissimo LA maggiore.


14 luglio, 2010

Un Barbiere alla Scala prima delle vacanze

Come non bastassero le vicende bondiane (regolare sciopero della prima) questo Barbiere ha avuto anche una gestazione difficile (e meno male che non è stato un aborto) con licenziamento dell'allenatore (Spinosì) proprio alla vigilia della partita, sostituito in fretta e furia con uno che non è ancora in ferie solo per caso, dovendo anzi prepararsi per il prossimo ROF ferragostano: il giovine (e bravo, invero) Michele Mariotti.

Ieri sera niente Flórez, ma il negretto Lawrence Brownlee, che nonostante la sua vocina si è meritato almeno tre minuti di applausi a scena aperta, dopo la sua aria finale. Ma tutti i numeri (escluso l'iniziale Ecco ridente in cielo) sono stati accolti da consensi e nessun buato. La DiDonato ha trionfato come Rosina ed anche gli altri (li vogliamo chiamare secondo cast?) hanno raccolto applausi e bravo! a josa. Il pubblico della terza (effettiva) ha evidentemente gradito questa ripresa del quarantennale allestimento del grande Ponnelle, uno che – possedendo qualità, sensibilità e cognizione di causa – non aveva certo bisogno di ricorrere ad idee strampalate e intellettualoidi, né di stravolgere gli originali che metteva in scena, per avere successo.

Insomma, date le premesse, poteva andare assai peggio. Ma restano - al momento di andare in vacanza e a stagione agli sgoccioli (10 opere su 12) – tutte le perplessità sulla qualità generale della produzione scaligera. Che francamente contraddice la litanìa di Lissner di una Scala diversa e superiore, e quindi meritevole di privilegi esclusivi.

Aspettiamo adesso il ROF, dove ritroveremo Mariotti con i suoi bolognesi nel Sigismondo e poi nello Stabat Mater. Demetrio-Polibio e Cenerentola completano il cartellone principale.

13 luglio, 2010

Muti e il Requiem di Cherubini a Ravenna

Il prossimo 14 settembre ricorrono i 250 anni dalla nascita del grande musicista fiorentino, avvenimento che per la verità non sembra aver suscitato eccessivi entusiasmi celebrativi.

Va dato perciò merito a Riccardo Muti per aver chiuso il cartellone concertistico del Ravenna-festival guidando la sua Cherubini, l'Orchestra Giovanile italiana, la Stagione Armonica e musicisti delle Accademie di Lubiana e Zagabria, e del Conservatorio di Trieste, con coristi italiani, sloveni e croati, nel Requiem in DO minore, opera che ri-suonerà anche stasera in piazza a Trieste nell'ambito dell'iniziativa Le vie dell'amicizia.

E proprio in onore agli amici sloveni e croati la serata si è aperta con l'esecuzione dei tre inni nazionali; e poi, prima del Requiem, dalla presentazione di due composizioni corali: Libertas animi dello sloveno Andrej Misson (2008) e Himna slobodi del croato Jakov Gotovac (1928). A dispetto degli 80 anni che le separano, non sono poi musicalmente così distanti, ancorate alla tonalità ed alle tradizioni orientali e slave.

Si racconta che Beethoven ammirasse il Requiem di Cherubini più di quello di Mozart, al quale peraltro il nostro è debitore. Nessun solista qui, ma soltanto cori, onde evitare – selon Cherubini - tentazioni melodrammatiche. Che peraltro emergono qua e là, come nel plateale colpo di tam-tam che segue la fanfara di apertura del Dies Irae, prima dell'ingresso in tremolo degli archi alti: curiosa la notazione, che lo pone sul rigo dei bassi del coro:
























O anche nei poderosi accordi di MIb maggiore che chiudono (due volte) il Tempo a cappella dell'Offertorium, precorrendo quelli (in FA) del Sanctus verdiano.

Straordinaria, a proposito dell'Offertorium, la tripla fuga sul Quam olim Abrahae, che non sfigura per nulla rispetto a quelle, colossali, del futuro Requiem brahmsiano.

Insomma, 50 minuti di grande musica, che il pubblico che gremiva il Pala De André ha ascoltato in raccoglimento davvero… religioso. Esplodendo poi in un lungo e liberatorio applauso per le legioni di coristi (200) e strumentisti (100), per i maestri dei cori e, inutile aggiungerlo, per Riccardo Muti, che con pagine come questa sembra davvero immedesimarsi spiritualmente, prima ancora che musicalmente.

E così, un Festival che era partito, ahinoi, con la pesante tegola della forzata defezione di Abbado ha avuto una conclusione trionfale.

07 luglio, 2010

Muti libera la Betulia a Ravenna

La Betulia liberata di Mozart (composta su testi di Metastasio dopo una visita a Padova) è stata portata da Riccardo Muti a Ravenna, dopo il recente festival di Salzburg. E come in Austria, anche in Romagna Muti ha eseguito, come antipasto, a S.Apollinare, l'oratorio di Jommelli di pari oggetto.

L'azione sacra del quindicenne Teofilo (sono due ore e un quarto di musica) mostra già i segni del genio, a cominciare dall'Overtura in RE minore, 172 battute che non la fanno sfigurare al confronto di altre più mature e più celebri. Lo schema è quello dell'Oratorio, con recitativi ed arie che si alternano con perfetta regolarità. La prima parte dell'opera comprende 8 recitativi e arie, più il coro finale; la seconda comprende 7 recitativi e arie (incluso il coro finale).

Qua e là compaiono spunti che ritroveremo nel Mozart più maturo, come ad esempio l'incipit dell'aria-4 Pietà, se irato sei, che ci richiama da vicino quello del tempo centrale della Sinfonia Concertante per violino e viola.

Nella seconda parte abbiamo due recitativi fondamentali: il primo, semplice, all'inizio, fra Ozìa e Achior, una vera e propria tenzone filosofica fra il monoteismo del primo e il politeismo del secondo. E l'altro, accompagnato, che contiene il racconto di Giuditta, che descrive con grande realismo e particolari macabri e raccapriccianti la scena della decollazione di Oloferne:




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Certo, è ancora un Mozart piuttosto scolastico, che rispetta alla lettera le forme consolidate del suo tempo, e che ancora dovrà maturare le geniali innovazioni che ne faranno uno dei giganti della nostra civiltà musicale.

I sei della compagnia di canto, il coro Philharmonia di Walter Zeh e i ragazzi dell'Orchestra Cherubini hanno assecondato al meglio la direzione di Muti, che sappiamo avere una particolare predilezione per tutto ciò che in qualche modo si riconduce alla scuola napoletana (Mozart incontrò Jommelli poco prima di comporre la Betulia).

La decisione di proporre quest'opera in forma completamente scenica (con la regia di Marco Gandini) è assai coraggiosa, dato che le forme e i contenuti meglio si presterebbero ad una esecuzione in concerto. L'azione manca, se si esclude l'episodio dell'incontro Giuditta-Oloferne, comunque raccontato dalla protagonista (pure mostrata sulla scena della decollazione) e non vissuto in presa diretta; salvo che in alcuni recitativi, dove più personaggi dialogano fra loro, e i quattro interventi del coro, per il resto abbiamo arie cantate da un personaggio solo, che espone, per così dire, la sua visione del mondo, mentre tutti gli altri (protagonisti e coro) se ne stanno ad ascoltare, immobili o con lenti movimenti ed espressioni del volto a trasmettere i rispettivi stati d'animo.

Insomma, per quanto Gandini, con Italo Grassi (scene, molto interessanti), Gabriella Pescucci (costumi, assai appropriati) e Marco Filibeck (luci) abbiano fatto il massimo – e di ciò glie ne va dato merito – non si è potuta evitare quella staticità che è proprio congenita a questo tipo di opera, e che oltretutto si accompagna alla relativa monotonìa (per le nostre orecchie, assuefatte al Mozart posteriore) della parte musicale.

Alla fine però grande e meritato successo, con ripetute chiamate per ciascuno e per tutti, in un Alighieri gremito.

04 luglio, 2010

Giro di vite alla Fenice

No, non si tratta di un ennesimo decreto di Bondi per ripicca verso una città che ha rieletto a sindaco un esponente dell'opposizione… Ma dell'opera di Benjamin Britten: The turn of the screw, la cui ultima recita è andata in onda ieri pomeriggio.

Sulla strada per il Teatro, una interessante sosta alla Chiesa di San Maurizio Martire, dove è allestita la mostra Vivaldi e il suo tempo. Mostra – soprattutto – di strumenti musicali, a corde e a fiato, che ospita tesori della collezione di Artemio Versari, venerabile contrabbassista del Comunale di Bologna, docente ed esperto di strumenti d'epoca. Un bell'aperitivo prima di apprezzare la virtuosistica compagine cui Britten affida il sostegno della sua opera.

Bravissimi tutti gli interpreti. A cominciare dai due ragazzini, nei panni di Miles e Flora: l'undicenne Peter Shafran, che mostra un'esperienza da cantante navigato, che non ha bisogno di guardare continuamente il Direttore per prendere gli attacchi. Cosa che fa di continuo Eleanor Burke (12 anni) comunque sempre brava (poi mi è simpatica perché assomiglia in modo impressionante alla mia seconda figlia, quando aveva la sua età…)

Julie Mellor e Allison Oakes erano rispettivamente la governante Grose e miss Jessel e direi che se la sono cavata egregiamente, soprattutto la prima.

Eccellente Marlin Miller, nei ruoli del Prologo e di Quint: ha una voce da tenore più eroico che barocco (quale era Pears, dedicatario dei ruoli) ma si cala molto bene nel personaggio del peccatore-adescatore.

Su tutti Anita Watson, perfettamente a suo agio nel ruolo della protagonista-senza-nome: voce piena, potente, e grande presenza scenica.

Jeffrey Tate e i 16 professori della Fenice hanno saputo cavar fuori ogni dettaglio e ogni tesoro dalla partitura britteniana: trionfo anche per loro. Peccato che il Teatro presentasse ampi vuoti, sia in platea che nei palchi; vuoti – è un vezzo poco nobile – aumentati di numero dopo l'intervallo.

Regìa, scene e costumi erano di Pier Luigi Pizzi. Un approccio generale assai serio e conservativo: scene sobrie e funzionali (due piani verticali: sotto il soggiorno e gli ambienti di studio dei ragazzi, sopra la camera di Miles) e due diversi fondi: le finestrone sull'ingresso della casa e il bosco e il lago per le corrispondenti scene. Costumi e suppellettili allineati all'epoca del racconto di James (fine '800).

Quanto alla regìa, nessun'idea strampalata (un campione di Regietheater potrebbe, che so, trasformare i fantasmi in due personaggi di fumetti, che escono dalla play-station su cui giocano i bambini) e aderenza sostanziale all'originale, diciamo con qualche eccessiva (per me) sottolineatura in più rispetto alle esplicitazioni che già la librettista Piper e Britten avevano fatto sul testo di James.

Come ad esempio la prematura presenza dei piccoli all'apparizione di Quint alla finestra (Atto I, Scena V) che toglie un filo di drammaticità a ciò che poi accade nella Scena VIII. O anche (Atto I, Scena VI) Quint che appare proditoriamente (rispetto al libretto) a spiegarci da chi il piccolo Miles ha imparato certe filastrocche (malo, malo).

O ancora (Atto I, Scena VII) la piccola Flora che – all'apparizione di miss Jessel – invece di ignorarla (o fingere di ignorarla, come vuole il libretto) le tende la bambola con cui giocava: cosa che stride poi clamorosamente con il comportamento della piccola nella scena VII dell'Atto II, dove lei negherà sdegnosamente di vedere l'ex-istitutrice, riapparsa sul lago.

Poi anche il comportamento dei due fantasmi è piuttosto caricato (anche se ciò non stravolge il senso generale del racconto): nell'ultima scena (VIII) del primo atto, invece di presentarsi i tempi diversi (prima Quint, sulla torre, che chiama Miles che sta giù nel giardino; poi la Jessel, che dal lago chiama Flora, affacciata al balcone) i due fantasmi ex-amanti si presentano ai due piccoli insieme, anzi allacciati in atteggiamento palesemente erotico. Il che contrasta assai con la lettera – se non con lo spirito – del libretto.

Ancor più esplicito è il comportamento dei due nella prima scena del secondo atto, laddove Quint, entrando poco dopo la Jessel che gli chiede ragione della sua chiamata, le pianta subito la mano su una tetta, come se non si fosse intuito che fra i due doveva esserci stato qualcosa di piccante, quando erano in vita… E i due non sono in un chissà dove (nowhere nel libretto) bensì accomodati (si fa per dire) sulla scrivania dell'Istitutrice (dove di certo dovevano averne combinate di cotte e di crude da vivi, e magari in presenza dei fratellini).

Non solo, ma invece di scomparire, Quint e Jessel si sdraiano affiancati sulla scrivania, proprio mentre arrivano Miles e Flora che, invece di avviarsi verso la chiesa (già si odono le campane) recano un velo scuro con cui coprono i due fantasmi, depositandovi sopra le corone di alloro e di giglio che portavano in testa. Solo dopo si accodano all'Istitutrice e alla governante per recarsi in chiesa. Questa scena, di per sé gratuita, ha però due grandi pregi: il primo è di dare un valore immediato e concreto alla frase dell'Istitutrice che, rivolta alla Grose, afferma: I tell you they are not with us, but with the others, i due piccoli sono lì, ma non con loro, bensì con i fantasmi; il secondo è di natura pratica: andatosene Quint con il velo, la Jessel resta su quella scrivania, quindi già in posizione per la scena successiva, dove verrà per l'appunto sorpresa dall'Istitutrice.

Insomma, al di là di queste piccole (o meno piccole) forzature, una regìa del tutto aderente al libretto e di sicura efficacia.

Quindi non resta che fare i complimenti a tutta la squadra: questo è un esempio di come si possa ancora oggi fare del buon teatro musicale.

01 luglio, 2010

Un gratuito Faust alla Scala

La seconda recita del Faust (quinta in calendario, ma arrivata dopo tre annullamenti causa sciopero) è stata gentilmente offerta al pubblico dalla Direzione del Teatro. Che rimborserà il prezzo del biglietto, a risarcimento del danno provocato al livello artistico della rappresentazione dalle agitazioni delle maestranze, che anche ieri sera – pur non scioperando – hanno manifestato contro il decreto (anzi ormai la Legge-Bondi) presentandosi (orchestrali e coro) in abiti borghesi. Gesto – questo di Lissner - tanto squisito quanto eccessivo, datosi che il casual ai professori d'orchestra può addirittura far bene, lasciandoli più liberi nei movimenti (personalmente non avrei nulla in contrario che vestissero così anche a SantAmbrogio) e – non lo avessero annunciato nel pistolotto in apertura di spettacolo – forse nessuno si sarebbe accorto che il coro era in borghese, vista la totale improbabilità dei costumi di tutto il resto della compagnia.

Piuttosto, se un motivo per il risarcimento esiste, è da individuarsi nell'intollerabile sequela di lungaggini che ha esasperato un pubblico (assai scarso in platea e palchi, per la verità) costretto a sorbirsi 5 minuti di ritardo iniziale, cui se ne sono aggiunti almeno altrettanti per il proclama sindacale, accolto da applausi, ma anche da vivaci rimostranze (certo che il gradimento di Berlusconi fra il pubblico scaligero dev'essere un filino più basso del 68% sbandierato dal nostro PM ad ogni piè sospinto… forse è per questo che lui alla Scala non ci mette piede?) e poi addirittura 40 minuti di secondo intervallo, roba che neanche a Bayreuth! Col risultato di far abbassare l'ultimo sipario 10 minuti dopo mezzanotte, con gente che da un po' se ne andava alla spicciolata, per non perdere l'ultimo metrò.

Peccato, perché in fin dei conti questo Faust non è peggio di altre disdicevoli imprese di questa stagione scaligera. Nekrosius propone una regia piuttosto strampalata e piena di simboli ed ammiccamenti (vuoi bambineschi, vuoi ridicoli) ma con qualche spunto intelligente, e soprattutto non si sogna di inventarsi un Konzept che stravolga la sostanza dell'originale (messaggio per tali Dante e Padrissa, tanto per non far nomi, ma cognomi): insomma, ci presenta passabilmente il Faust di Barbier-Carré-Gounod, almeno nello spirito, se non proprio nella lettera. E la compagnia di canto (Kapellmeister incluso) sarà pure di livello modesto (per le pretese della Scala) ma non certo peggio di altre, anche assai più titolate, che hanno allietato le serate di questa stagione.

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Si comincia con il sipario che si alza poco dopo l'inizio dell'Introduction, mostrandoci Faust in un ambiente che presenta due vie di fuga, delimitate da strutture di legno: lui è effettivamente ad un bivio della sua esistenza: libri aperti cosparsi in giro sul pavimento, ed un grosso macigno (il fardello degli anni e della sapienza?) che il nostro cerca di spostare con gran fatica. Peccato che proprio mentre lui è curvo sotto il peso del pietrone, l'orchestra abbia ormai esaurito il suo tema cromatico e oscuro, e presenti quello dolce, in FA maggiore (quello dell'aria di Valentin) che francamente stride con ciò che lo spettatore vede. Due comparse abbigliate da rondoni (con le ali che paiono a volte delle stampelle!) si aggirano nell'ambiente (torneranno anche più avanti) forse a impersonare il destino (ma perché non sono direttamente dei corvi?)

Dopo le irruzioni di ragazze e contadini, che sviano l'attenzione di Faust dall'ampolla del veleno, arriva Méphistophélès: tutto nero come un pipistrello e con attrezzo atletico in spalla, un'asta che serve evidentemente a superare ostacoli apparentemente impossibili. Al seguito un piccolo marinaretto, che gli fa da aiutante, o da remora, tanto per movimentare la scena.

La visione di Marguerite è proposta tramite riciclaggio delle prefiche della Emma Dante, che accompagnano la ragazza (e che poi torneranno via via nel corso del dramma): un simbolo non proprio fuori posto, poiché – a differenza di Carmen – qui è già chiaro fin dall'inizio che tutta la faccenda puzza di …bruciato. Certo che la scena resta piuttosto poco poetica, a dispetto delle quattro battute con cui Gounod chiude il MI maggiore della visione, citando esplicitamente il Sogno mendelssohniano!

Méphistophélès dà a Faust il suo filtro di eterna giovinezza, e in cambio si beve il veleno destinato al professore (questa Nekrosius ce la dovrebbe spiegare). Poi, seguito dal discepolo ringiovanito e rivestito a nuovo (e dal marinaretto-remora) si avvia di rincorsa con la sua asta, a superare ogni ostacolo!

Il secondo atto inizia con la Kermesse, dove si dovrebbe vedere gente agitata e allegra. Qui appare il coro (in borghese, ma pochi se ne accorgerebbero) che resta però piuttosto fermo, lasciando a poche comparse (e alle prefiche ed altri oscuri individui, dei menagramo evidentemente) di mimare siparietti più o meno piccanti e di animare la scena. Questa sarà una costante: il coro sempre fermo, anche quando (valsons!) dovrebbe ballare il walzerone del finale d'atto. Che sia una stranezza della regia, o una forma di sciopero bianco anti-Bondi? C'è poi Wagner, con un gomitolone di spago in mano, il cui significato dovrà esser chiaro al regista e alla sua ristretta cerchia di amici.

Arriva Valentin ad esporre l'aria appositamente scritta da Gounod per un baritono inglese che si sentiva giustamente castrato, in assenza di un proprio pezzo di bravura. È accompagnato da Siébel, su cui val la pena dire un paio di cose. Ora, già ci ha pensato Gounod a prendersi gioco di lui, facendolo interpretare (en-travesti) da un soprano, ma Nekrosius mostra un accanimento degno di miglior causa, affibbiandogli una malformazione congenita, facendone insomma un povero paraplegico che zoppica in modo plateale. Roba da avanspettacolo, aggravata da altre gratuite ed offensive gag: come quella dove Méphistophélès gli infila sotto un piede una zeppa, per… chiudere il dislivello fra le due gambe!

Senza infamia né lode il resto, salvo la mancanza dell'esplicito gesto esorcizzante (le spade incrociate che tutti oppongono a Méphistophélès, e che qui si riducono a due giocattoli impugnati dal marinaretto…) Dopo il walzer che nessuno balla, con l'intermezzo dell'approccio di Faust a Marguerite, che dà modo al tenore di esibire il suo SI acuto, si chiude per il primo intervallo (solo una mezzoretta).

Il terzo atto si apre con un altro gratuito sgarbo del regista al povero Siébel, il cui cofanetto (sic!) colmo di fiori viene trafugato da Méphistophélès, insieme ad una lettera della cui presenza non v'è traccia nel libretto. Poi c'è la cavatina di Faust, col DO acuto della présence, e la presenza di Marguerite si materializza, con lei che avanza fino al proscenio portandosi dietro una sedia (Faust da parte sua ne maneggia un'altra) per poi uscirsene lateralmente (ma quanto lo pagano Nekrosius per queste trovate?)

Nella lunga scena dell'arcolaio, l'arcolaio manca, ma tanto è un dettaglio secondario. Al suo posto Marguerite gioca con una bambola (lei è davvero una bambina ingenua, non c'è che dire) e così canta i suoi recitativi che introducono la canzone del Roi de Thulé e l'aria dei gioielli, di cui la ragazza prende due enormi gocce, mentre si intravedono (ma solo dal loggione) anche montagne di perle dentro la vera e propria cassa del tesoro procurata da Méphistophélès.

La scena successiva (incontro Méphistophélès-Marthe e poi il quartetto a due coppie) si svolge non all'aperto, ma in un ambiente interno, nella casa, dove compaiono ancora prefiche varie, più che altro a distrarre l'attenzione dello spettatore. Poi il duetto fra Faust e Marguerite, introdotto dall'invocazione di Méphistophélès, in DO maggiore, che ricorda – orrore! – nientemeno che quelle di Brangäne nel secondo atto del Tristan. Marguerite, invece che alla finestra, si accomoda su una panca-divano sul proscenio per la sua esternazione, con i due che la spiano in un angolo. Poi Méphistophélès dà un bel pugno in testa a Faust (come dirgli: visto, stupidone?) e lo spedisce fra le braccia della ragazza, poi disteso per terra, accanto al divano su cui giace Marguerite (?!)

Nel quarto atto cominciano i tagli, prima vittima la scena e recitativo iniziale di Marguerite, che comincia dal Il ne revient pas! Qui si vede una piccola culla che a un certo momento viene letteralmente impalata, per poi precipitare a terra, a significarci la brutta fine che fa il piccolo di Marguerite. Altro taglio non da poco è la scena con Marguerite-Siébel e la romanza di quest'ultimo/a (Si le bonheur) per cui si passa direttamente in chiesa, dove arrivano due enormi croci nere, circondate e movimentate da prefiche, menagrami vari, rondoni e altri spiriti malignazzi, oltre al coro in borghese che canta il suo spurio dies-irae. Una scena davvero impressionante, nulla da dire.

Si torna in piazza, col famoso coro dei soldati e con Siébel che arriva zoppicando col suo immancabile cofano-pedana-sgabello, seguito dal reduce Valentin, ansioso di rivedere la sorellina. Invece arrivano Faust e Méphistophélès che, appeso alla sua asta (sorretta da un paio di prefiche) canta la sua oltraggiosa serenata, il che fa impazzire Valentin. Il successivo duello non esiste, in pratica: Valentin è sopraffatto da forze oscure e preponderanti, cade ferito e poi, come ogni eroe che si rispetti, prima di tirare definitivamente le cuoia ha ancora tempo ed energie per fare il suo pistolotto strappalacrime. Tutto come da copione.

Devastato – come prevedibile, altrimenti si finiva alle due di notte – il quinto atto. In pratica, salvo l'introduzione di Walpurgis e una piccola parte della scena del palazzo di Méphistophélès e della valle di Brocken, si passa direttamente alla prigione di Marguerite, dopo che la ragazza è apparsa a Faust in abito da sposa e in mezzo a bianchi gigli. Quindi niente Choeur des Feux Follets, niente Chant bachique. E - ci mancava pure ! – niente balletti. Faust e Méphistophélès arrivano alla prigione in carrozza chiusa, con asta sul tetto e l'immancabile seguito di marinaretto, prefiche e quant'altro.

La scenografia della prigione ribalta – intelligentemente – quella che aveva accompagnato il resto dell'opera (la doppia via di fuga, la Y, il bivio): qui abbiamo invece una V, un imbuto aperto sul proscenio e chiuso sul fondo: non ci sono e non ci devono essere alternative, né vie di fuga. Marguerite, invece del suo arcolaio, si è portata un tamburello per il punto-e-croce. Solo che – impazzita, poverina! – tiene il tamburello con due mani e manovra l'ago con i denti (grazie Nekrosius!)

Al termine del suo emozionante Anges purs, anges radieux! che sale dal SOL al LA e infine al SI, sul fondo comparirà una cosa bianca, a rappresentare evidentemente il paradiso – Christ est ressuscité, DO maggiore - concesso a Marguerite, che vi si adagia, mentre Méphistophélès cerca ancora di difendere il possesso della sua asta miracolosa.

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Come sono andate le cose sul fronte musicale?

Irina Lungu è stata per me una più che discreta Marguerite: bella voce, forse non potentissima, ma gradevole, senza urla né eccessivo vibrato. E perfettamente calata nella parte, di ragazza ingenua e fragile, facile preda e vittima di tutti i mali e pregiudizi della società. Per lei anche l'unico vero applauso a scena aperta.

A Nino Surguladze va almeno riconosciuto il merito di aver stoicamente sopportato le vessazioni del regista! Senza infamia né lode la sua prestazione, peraltro decapitata della romanza del quarto atto che è la parte forse più importante di questo ruolo.

Sylvie Brunet è stata una Marthe dignitosa, per ciò che la parte prevede. Così come dignitoso è stato Olivier Lallouette, che impersonava Wagner.

Il Valentin di Dalibor Jenis ha avuto luci ed ombre, gli darei una risicata sufficienza. Mi è piaciuto più nella scena della morte che nell'aria del secondo atto, dove mostrava carenze nelle note basse (il MIb di attacco).

Roberto Scandiuzzi mi è piuttosto piaciuto, dico la verità: un Méphistophélès abbastanza autorevole, voce che passa bene – pur se non sempre perfettamente intonata - e grande presenza scenica.

Marcello Giordani era Faust: si è beccato una contestazione, ma io tenderei a dargli una sufficienza chiara. La sua voce si è sempre sentita perfettamente, ha sparato i suoi due acuti in modo pulito, non ha commesso strafalcioni, e di questi tempi è già qualcosa.

Stéphane Denève ha diretto più che discretamente, mai soffocando le voci, neanche negli insiemi fracassoni e l'orchestra – grazie agli abiti casual? – è parsa a suo agio con le delicatezze e i languori di questo Gounod.

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Insomma, un Faust per nulla malvagio che sta – io non ho dubbi – ampiamente sopra la media del livello delle produzioni di questa stagione.