ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

15 gennaio, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 14

Dalla sinfonia al poema sinfonico è il canovaccio del concerto N°14 della stagione de laVerdi. E sul podio, come 7 giorni prima, un organista passato alla direzione. Che dirige senza bacchetta.

Come antipasto ascoltiamo tre marce schubertiane orchestrate da Franz Liszt. Schubert fu uno dei compositori più sfruttati da Liszt come sorgente di materia prima da impiegare – ai tempi di Weimar - anche a scopo didattico-scientifico, si potrebbe dire.

Di marce schubertiane – scritte dal viennese per pianoforte a quattro mani – esistono trascrizioni lisztiane (che non si limitano al trasporto, ma integrano e arricchiscono gli originali) ancora per pianoforte e poi per orchestra. Ad esempio quelle ascoltate ieri sera sono accorpate nel catalogo lisztiano come Opus S363 col titolo Quattro marce da Schubert Op. 40-54-121 e datate 1859-60. Ma una di queste, ad esempio, era stata trascritta per pianoforte molti anni prima (1846) e pubblicata con altre nell'Opus S426 col titolo Marce di Schubert.

La prima è la N°3 delle Sei grandi marce dell'Op.40, D819. La seconda è il movimento interno dell'Op.54, D818 (Divertimento all'ungherese). La terza è presa dall'Op.121, D886: è la prima delle due marce in DO. Francamente piuttosto pesantucce da digerire, credo che la trascrizione per orchestra abbia loro addirittura nuociuto. O forse sarà stato Haselböck a tenere un profilo troppo basso e soporifero.

Ora escono le percussioni (timpano escluso) e i fiati bassi, che non sono contemplati nell'Ottava di Beethoven (ritorneranno per i Poemi lisztiani). Poco da dire sulla sinfonia, arcinota come tutte le sorelle maggiori beethoveniane. Fra l'altro il programma di sala, come sempre pregevole, porta un'analisi nientemeno che di Quirino Principe! Giusto una curiosità sul metronomo del tempo iniziale (Allegro vivace e con brio). Sappiamo come le indicazioni di Beethoven siano da prendersi con le molle (spesso non furono nemmeno apposte di suo pugno) e famoso è rimasto l'ineseguibile 138 minime dell'Allegro della Hammerklavier. Qui le edizioni in commercio espongono l'indicazione metronomica di 69 minime puntate. Essendo il tempo in 3/4, ciò significa esattamente 69 battute al minuto, una cosa davvero esagerata! A titolo di curiosità, HvK qui va apparentemente veloce (è anche uno dei più veloci in assoluto) ma è in realtà di un buon 25% più lento rispetto a quel metronomo… che nessuno evidentemente rispetta!

Discorso quasi analogo per il Finale (4/4 con metronomo a 84 semibrevi, cioè 84 battute al minuto): è un treno in corsa. Sempre il citato Herbie, pur col fiatone, resta comunque lento di più del 10%.

E Haselböck che fa? Direi che si attiene alla prassi, anzi forse prendendosela ancora più comoda, nel primo movimento, francamente eseguito con poco brio. Si rifà nel secondo, e anche nel menuetto. Ma è nel finale che dà – con l'orchestra, timpano in testa – il meglio di sé.

Dopo l'intervallo (il Maestro si ripresenta con i capelli gelati) si passa a Liszt, e a due dei suoi tanti poemi sinfonici. Si comincia con il secondo: Tasso, lamento e trionfo (frutto di un lavoro a più mani, quelle di Conradi e Raff, che si occuparono delle prime orchestrazioni) nato da - e tutto basato su - uno spunto musicale fornito a Liszt dai gondoliér venesiàn che sentì cantare nei canali strofe della Liberata.

Qui prendo lo spunto per fare una considerazione (peregrina?) sul rapporto autore-interprete, come mediato da segni e indicazioni in partitura. Dopo l'introduzione lenta, in DO minore, attacca un Allegro strepitoso (27 misure, che verranno riprese alla lettera anche più avanti, dopo la sezione centrale del menuetto). Ohibò, se foste il Kapellmeister, come interpretereste questa bizzarra indicazione dinamico/agogica? (che Liszt prescrive all'esecutore anche altrove, ad esempio in un passo della cadenza iniziale del suo primo concerto per pianoforte.)

Strepitoso significa, letteralmente: rumoroso, chiassoso, risonante, che fa strepito; col che si dovrebbe pensare che Liszt chieda di suonare quella frase con quanta più forza, esuberanza e fracasso possibile. Ma allora non bastava segnare un fff su tutti i righi della partitura? Invece vi troviamo un modesto f, per tutti gli strumenti.

Cerchiamo così un altro significato di strepitoso e troviamo che vuol dire anche: clamoroso, sensazionale. Quindi – caso mai - che suscita strepito, cioè suscita grida, ovazioni e ooohhh! negli astanti. Ma allora, se il chiasso non sta nell'esecuzione, ma nella reazione degli ascoltatori, per essere strepitosa, l'esecuzione stessa deve essere fuori dal comune, caratterizzata da un'abilità più unica che rara, da suprema maestrìa, insomma un qualcosa che strappa applausi di meraviglia. Ma allora, perché ciò deve valere solo per qualche decina di battute della composizione, e non per la sua totalità? Mah… Infine, se ci domandiamo: 1. quale fosse, verso la metà dell'Ottocento, il significato prevalente del termine strepitoso… e 2. quanto profondamente Franz Liszt conoscesse la lingua italiana… fate voi. Meno male che gli orchestrali de laVerdi l'impegno massimo ce lo mettono dalla prima all'ultima battuta!

E a proposito di lessico musicale italiano, ecco un'altra chicca: all'inizio della pomposa cadenza finale, in un pesantissimo DO maggiore, Liszt prescrive (in tedesco) Die Viertel wie früher die Halben e lo traduce: le semiminime come prima le semimassime (strasmile!)

Orbene: Haselböck, come ci ha propinato il tutto? In modo direi fin troppo enfatico, con tempi sempre al limite inferiore e un finale dove la pompa mi è parsa davvero insopportabile. Salverei l'Allegretto mosso con grazia centrale, in 3/4. Applausi in particolare per il clarinetto basso, che ha un ruolo di primo piano nell'iniziale esposizione – Adagio mesto - del tema del gondoliere.

E che abbandona la scena, non essendo in organico nel terzo dei poemi lisztiani, l'arcinoto Les Prèludes, che ebbe una genesi complicata (nato come preludio ad una cantata, passato nelle mani del solito Raff, finalmente ripreso da Liszt e riferito – a posteriori - alle meditazioni su Lamartine) e poi un successo enorme (anche troppo, visto l'uso improprio che ne fece il nazismo!) È curioso rilevare come una sezione di uno dei temi principali (a parte la dinamica e la tonalità) sia costituita esattamente dalla sequenza di note (dominante-mediante-tonica-sesta-tonica-sopratonica-mediante) che ritroviamo nel Ring (tema del Walhall) ideato da Wagner proprio a ridosso della sua permanenza nell'esilio di Weimar, dove il futuro suocero componeva – spesso appaltandone qualche spezzone ai collaboratori - i suoi poemi sinfonici.






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E forse la cosa non è per nulla casuale: nel programma del genio ungherese, vagamente mutuato dal poeta transalpino, si trovano un'atmosfera di ineluttabilità della morte e l'innata, naturale propensione dell'Uomo per la sfida e il cambiamento. Che sono proprio i concetti (Wandel und Wechsel liebt, wer lebt) che Wagner traspone nella figura e nell'approccio esistenziale di Wotan, e di cui il Walhall è strumento materiale.

Qui il Maestro per fortuna non ha esagerato (e sarebbe facile) con la pesantezza e ha discretamente messo in risalto le diverse anime del poema; da parte loro i Professori si sono superati, cavando fuori un'esecuzione di buon livello, accolta da nutriti applausi.

Nel prossimo concerto saranno ancora protagonisti i russi, della patria e della diaspora.

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